Ambiente e Natura

“Panefformaggio”

di Silverio Guarino

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Era il tormento di tutte le volte (e capitava spesso) che mi preparavo per andare a pescare con la canna alla punta del molo; mia nonna Fortunata e mia zia Concettina non si davano pace perché consideravano uno spreco da parte mia fare l’impasto di mollica di pane con formaggio parmigiano “grattugiato”.

Io andavo cercando palatelle ormai “vecchie” per prenderne la mollica, bagnarla e impastarla solo con abbondante formaggio parmigiano (non so perché non usavo il pecorino, forse perché le mani, poi, puzzavano di meno).
Sì, perché se non profumava in modo persistente di parmigiano, sembrava che poi quella esca non fosse in grado di attirare i pesci all’amo. Che poi… bisognava essere esperti nell’amalgamare il tutto, senza esagerare con l’acqua che andava usata con parsimonia, così da ottenere un prodotto compatto, elastico che ben si adattasse a coprire l’amo da pesca.

E così, ogni volta era la stessa storia: io che preparavo il “panefformaggio” quasi di nascosto e loro due che mi sorvegliavano a distanza… murmuliann’.
Mai usare formaggio rancido o immangiabile, questo era certo; se non era “buono” per noi, figuriamoci se lo era per i pesci – pensavo io… -, per cui era sempre il miglior parmigiano ad essere usato per il miglior “panefformaggio”.

E poi, bisognava prepararne la quantità giusta, perché se avanzava non c’erano frigoriferi per poterlo conservare e quindi bisognava consumarlo tutto.
Quei piccoli ami venivano ricoperti con maestria; il “boccone” non doveva essere troppo grande, da riempire la pancia ai pesci o da appesantire il sughero galleggiante, ma neanche troppo piccolo da scoprire l’amo e far insospettire la preda.

Preda che era costituita da cefali, occhiate, sbaraglioni, “pezzognelle”, “guarracini” e sarpetelle che, fritti, si dimostravano talmente impuzzoliti di gasolio che neanche i nostri gatti domestici (i Fuffi e i Pucci succedutisi nel tempo), riuscivano a mangiare.

Al contrario del mio “panefformaggio” che spesso, lasciato incustodito per terra, finiva tra le fauci del solito cane viandante affamato (… fine della pesca!).

A’ pont’u muòl’, sott’u lanternine, teatro delle mie gesta, si situa temporalmente tra la foto di sopra, senza la banchina di prolungamento del molo (tanto che per andare dietro la caletta si girava stretto intorno al basamento del faro) e la foto successiva, mooolto più recente, in cui si vede addirittura la “bianca” scogliera che delimita la Caletta (che peraltro non c’è più, in gran parte cementificata!)

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