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Un’altra vita professionale e il commiato che non ci fu

di Sandro Russo
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Il pubblico commiato di Biagio Vitiello dai suoi pazienti (leggi qui [2]) mi ha fatto pensare al mio, di commiato.
Che non c’è mai stato.
E chiedendomi come e perché, mi sono ritrovato a fare un bilancio della mia vita professionale. Dalla laurea nel 1971 alla pensione nel 2009, quasi quarant’anni da medico, in campi molto diversi tra loro.
Ripensandoci, l’unica cosa che non ho fatto è stato il medico di famiglia, tranne qualche sostituzione in condotta, nei primi anni dopo la laurea, per raggranellare qualche soldo. Soprattutto al Nord, in provincia di Brescia, per sostituzioni di 20 giorni ai medici locali che (a quei tempi) andavano a caccia in Jugoslavia.

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Perché la mia scelta lavorativa di base è stata da subito quella universitaria (assistenza, ricerca e insegnamento): prima come “interno volontario” (aggratis) in una Clinica Medica, poi “borsista” universitario (a 140.000 lire al mese), poi “assegnista” (con lo stipendio passato a ben 270.000 lire).
Va da sé che per sopravvivere dovevo fare un altro lavoro. Che è stato quello del Medico di Guardia in una clinica privata (poi regionalizzata) a Pomezia, a una trentina di km da Roma. Ci facevo due turni di seguito di 24 h, dal sabato mattina al lunedì mattina; mentre il resto della settimana (dal lunedì, tornando di corsa al Policlinico, fino al venerdì), lo passavo in clinica universitaria; per fortuna con turni di mezza giornata.

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La clinica di Pomezia è stata quella dove mi sono fatto le ossa come medico. Facevo di tutto: il medico di guardia per i vari reparti (medicina, chirurgia, ortopedia e ostetricia-ginecologia) e il Pronto Soccorso. Praticamente ero l’unico medico della struttura, jolly per tutte le situazioni. Ho dovuto perfino imparare ad assistere il parto, in attesa che arrivasse l’ostetrica reperibile (…fu lì che scoprii “con orrore” l’esistenza dei “parti precipitosi”); fare episiotomie ed episiorrafie.
Il Pronto Soccorso lì era una roba seria, essendo Pomezia una specie di Bronx di Roma: arrivavano gli incidenti stradali della Pontina, gli annegamenti e le risse del litorale di Torvajanica, e poi tutte le urgenze mediche da piccola e grande criminalità (sparati, sfregiati e vittime del giro di droga che in quegli anni cominciava a fare stragi tra i giovani).
I medici di guardia erano in grado di fare le radiografie, un esame del sangue (almeno l’ematocrito) e allertavano chirurgo, ferrista  e anestesista se c’era un’urgenza da sala operatoria. Ed era meglio che l’urgenza ci fosse davvero!

È stato a quel tempo – l’esordio professionale per entrambi – che ho conosciuto Rinaldo Fiore. Poi ognuno ha preso la sua strada e ci siamo persi di vista, salvo ritrovarci (e riabbracciarci!) più di quarant’anni dopo, del tutto per caso.
Da Pomezia sono passati anche i (futuri) medici ponzesi miei amici che al tempo studiavano a Roma, come Gennaro Di Fazio, Isidoro Feola e Mario Balzano… Quanti ricordi!

Nel frattempo avevo scelto in via definitiva di non fare la professione privata e di restare all’Università; accumulavo esperienza e specializzazioni. Ad un certo punto ho pensato di abbandonare la Medicina Interna e di approfondire gli studi nel campo dell’Urgenza, branca che di fatto già praticavo “sul campo”.
Di qui la svolta: spostare la mia qualifica, diventata infine di “ricercatore universitario”, da una disciplina all’altra e così sono passato al Centro di Rianimazione (del Policlinico Umberto 1° di Roma), perfezionando il cambio con la specializzazione in Anestesiologia e Rianimazione.

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Qui sono cominciati i quindici anni centrali della mia vita professionale, essendo la Rianimazione una sorta di Medicina Interna d’urgenza.
In realtà l’anestesista non l’ho fatto mai, pur avendo svolto il mio training nei tre anni di specializzazione in sala operatoria (per lo più in clinica otorinolaringoiatrica).
Credo che il lavoro del rianimatore sia il più completo di tutta la medicina, sia dal punto di vista teorico che manuale e pratico. Molto particolare è anche il rapporto con il paziente; il più delle volte in condizioni critiche, sedato e ventilato artificialmente. In qualche modo un’astrazione, dal momento che l’interazione è ridotta al minimo, ma perciò stesso tanto più intensa e coinvolgente sul piano etico.

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In quindici anni si può dire, ho visto di tutto… bambini, giovani, anziani. Molta sofferenza, molto dolore.
Il gruppo dei colleghi era molto affiatato (…e gli infermieri validissimi); il cambio di consegne, la mattina alle otto nella saletta delle riunioni, costituiva un forum scientifico in piena regola, in cui si approfondivano i problemi e si impostavano le terapie, con l’aggiornamento giorno per giorno. Il termine “epicrisi” veniva applicato anche lì.

Ma era un lavoro duro, per il carico emotivo e di responsabilità da sostenere. Bisognava applicare “il giusto mezzo”: se ti lasciavi coinvolgere troppo, la lucidità delle decisioni poteva esserne inficiata; se ti distaccavi troppo rischiavi di perdere l’anima, passando sopra, indifferente, a tutto il dolore del mondo.

Malgrado ci facessi attenzione (al giusto mezzo), alcune mattine smontavo dalla guardia di dodici ore così distrutto da pensare di avere una depressione endogena. Solo col tempo ho imparato e ho sviluppato delle contromisure. Alcune volte me ne andavo a bighellonare a piazza Vittorio (erano ancora i tempi in cui il mercato si svolgeva attorno alla piazza storica) anche senza dover comprare niente. Era una boccata di vitalità e colore – dopo la freddezza e le luci al neon perenni del reparto -, che pian piano mi riconnetteva alla realtà. Poi un bel sonno ristoratore e potevo ricominciare. Soprattutto avevo provato che non ero depresso!

Ma quindici anni di lavoro in rianimazione sono una prova al limite della sopportazione umana e così, quando mi fu proposta la riorganizzazione del Centro Antiveleni – un Servizio presente nell’Istituto che era stato lasciato in abbandono – accettai con entusiasmo. Anche per quello i tempi erano cambiati – troppe informazioni, troppi i farmaci e i prodotti che potevano essere considerati potenziali “veleni” – così che dal vecchio schedario cartaceo passammo ad uno sterminato data-base americano (Micromedex®),  erano nel frattempo arrivati i computer -, costantemente aggiornato, che conteneva tutto lo scibile medico.
Era un lavoro per me del tutto nuovo, e pur mantenendo le guardie e la partecipazione al gruppo di Rianimazione, andai a fare un training all’Ospedale Niguarda di Milano (al tempo il Centro Antiveleni leader in Italia) e nei tre anni successivi insieme ad una collega, acquisii una nuova specializzazione, in Tossicologia, a Firenze, polo di eccellenza della disciplina. Ogni giovedì su e giù tra Roma e Firenze col treno, per le lezioni e le esercitazioni; e magari il giorno dopo di nuovo di guardia.

All’Antiveleni, a parte le consulenze interne per i vari reparti, le prestazioni erano sostanzialmente telefoniche. Nel breve spazio di qualche minuto e con domande appropriate, bisognava capire se all’altro capo del filo c’era un problema reale, di che entità era e dare le opportune indicazioni. Una sintesi non facile, con l’insidia sempre in agguato.

Comunque ci ho passato un certo numero di anni, prima della pensione. Diciamo un distacco soft dalla professione, dopo il campo di battaglia della Rianimazione.

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Ora, ripensando un po’ a tutto l’insieme, devo riconoscere che per la natura dei miei diversi lavori in ambito medico, non avevo proprio nessun paziente da cui accomiatarmi… Né mi sono passati per la testa “sassolini nella scarpa” da togliermi.

Molto sentito invece il commiato con colleghi e specializzandi, con cui si era costituito un bel gruppo, per motivazione e affiatamento. Anche se poi, nostro malgrado, ci siamo persi comunque.

Guardando indietro, mi sembra incredibile come sono volati quegli anni, ma sono stati estremamente intensi. Penso (spero) di essere stato all’altezza. Di certo mi ci sono impegnato con tutto me stesso.

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Il Giuramento di Ippocrate

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In copertina del libro (del marzo 2007): La morte di Socrate, di Jacques-Louis David, 1787 (al Metropolitan Museum of Art, New York)