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Il processo (alla) della caccia. Un’apologia

di Riccardo Alongi
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Il processo alla della caccia. Un’apologia

Discussione tra me e mia madre quando avevo circa otto anni:
– Mamma, ma non sei andata più alla riunione di condominio?
– No, non potevo. Ho delegato Pietro.
– Mamma ma sei pazza?! Non lo sai che vota per la caccia?!

In barca con il mio amico Dario circa quindici anni fa:
Parte la canna.
– Ricky! Presto, prendi il raffio! È bello grosso… appena è sotto la barca, tira forte verso l’alto. Un colpo secco, mi raccomando. Cerca di prenderlo sotto la pancia.

Prendo ’sto uncino enorme. Mi ricorda un amo decisamente sproporzionato.
– Da’, non lo so fare. E poi vuoi che gli buchi la pancia?! Poverino… non mi ha fatto niente.
– Non dire minchiate! Muoviti! “Azziccalo” sotto la pancia!

Vedo la bestia sotto di me. Dietro, le voci che mi incitano a quel disumano atto di violenza. Respiro, mi prendo di coraggio e… niente. Non ce la faccio. Cerco un modo per fuggire da quella situazione per me surreale.
Gli incitamenti dietro di me si trasformano in turpiloqui. Calo il raffio in acqua e con estrema delicatezza poggio il pesce sulla parte concava dell’arnese e lo tiro su senza fargli un graffio. Dario, guardandomi in cagnesco, afferra il pesciolone e gli ficca le mani nelle branchie stringendolo in un ultimo abbraccio mortale.

Una delle esperienze più traumatiche della mia vita.
Con Dario siamo rimasti grandi amici ma non mi ha più proposto di andare a pesca con lui.

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Immaginate il mio sgomento nello scoprire che a Ponza quasi tutti gli abitanti hanno un fucile da caccia o da pesca. Dove sono finito a vivere? Su un piccolo scoglio isolato e, per giunta, covo di cacciatori senza scrupoli, bracconieri che stanno distruggendo l’isola.

Fortunatamente sono curioso. Ho chiuso in una stanza la mia valigia piena di pregiudizi e mi sono chiesto: cosa c’è dietro l’uccisione di un animale?
Lo dice la parola stessa: la caccia.

E mica uno va a caccia così, si sveglia una mattina e dice: ora mi compro un fucile e vado ad ammazzare un uccello o un pesce.
Sull’isola di Ponza ho scoperto che per essere cacciatore c’è bisogno di studio, osservazione, volontà, costanza, tecnica, capacità di adattamento e un infinito amore per la natura e per il territorio in cui si vive. Un’attività complessa che richiede dedizione e spirito di sacrificio.

Qui sull’isola, alcuni dei miei amici più cari sono cacciatori. Mi hanno raccontato e mostrato l’isola come nessuna mappa o libro ha saputo fare. Ho scoperto l’esistenza di una toponomastica intima dei luoghi, ho arricchito il mio vocabolario (in ponzese e in italiano) e la mia conoscenza di piante e animali. Ho imparato a osservare quello che per un homo metropolitano è invisibile.
Come Ciaula, a Ponza, ho scoperto la luna. Ho scoperto che per cacciare bisogna conoscere la meteorologia, la balistica, la fisica, l’anatomia sia del mondo animale sia del mondo umano.

Spesso, troppo spesso, quando osserviamo un fenomeno, ci concentriamo esclusivamente sul prodotto finale e quasi mai sul processo che lo sottende. L’uccisione di un animale è un singolo momento all’interno di un percorso formativo.
Da quando abito a Ponza, ho iniziato a considerare la caccia come una forma d’arte e non come un atto di violenza.

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Ho comprato una muta e un fucile. A volte vado a Cala dell’Acqua a farmi una pescata. Lo so che non è il posto più adatto ma non ho una barca e sono tendenzialmente pigro.
Quando esco dall’acqua, mi fanno sempre la solita domanda. Io do sempre la solita risposta:
– Siciliano! Allora, che ci mangiamo questa sera?
– Il solito. Sto andando a prendere una pizza.

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Nota della Redazione
Inviando l’articolo per la pubblicazione Riccardo specifica di aver appositamente barrato alla; così abbiamo mantenuto nel testo, ma non abbiamo potuto farlo nel titolo, perché il sistema non accetta tale carattere.
In mancanza di una indicazione specifica dell’Autore, le foto sono state scelte ‘bipartisan’, mantenendo la problematicità del dilemma proposto dall’articolo.