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La lettera del preside agli studenti del liceo Volta di Milano

segnalato da Sandro Vitiello; ripreso dal sito del liceo Alessandro Volta di Milano (https://www.liceovolta.it/nuovo/ )
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Lettera agli studenti – 25 febbraio 2020

“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia…”

Le parole appena citate sono quelle che aprono il capitolo 31 dei Promessi sposi, capitolo che insieme al successivo è interamente dedicato all’epidemia di peste che si abbatté su Milano nel 1630.
Si tratta di un testo illuminante e di straordinaria modernità che vi consiglio di leggere con attenzione, specie in questi giorni così confusi. Dentro quelle pagine c’è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria…
In quelle pagine vi imbatterete fra l’altro in nomi che sicuramente conoscete frequentando le strade intorno al nostro Liceo che, non dimentichiamolo, sorge al centro di quello che era il lazzaretto di Milano: Ludovico Settala, Alessandro Tadino, Felice Casati per citarne alcuni. Insomma più che dal romanzo del Manzoni quelle parole sembrano sbucate fuori dalle pagine di un giornale di oggi.

Cari ragazzi, niente di nuovo sotto il sole, mi verrebbe da dire, eppure la scuola chiusa mi impone di parlare.
La nostra è una di quelle istituzioni che con i suoi ritmi ed i suoi riti segna lo scorrere del tempo e l’ordinato svolgersi del vivere civile, non a caso la chiusura forzata delle scuole è qualcosa cui le autorità ricorrono in casi rari e veramente eccezionali.
Non sta a me valutare l’opportunità del provvedimento, non sono un esperto né fingo di esserlo, rispetto e mi fido delle autorità e ne osservo scrupolosamente le indicazioni, quello che voglio però dirvi è di mantenere il sangue freddo, di non lasciarvi trascinare dal delirio collettivo, di continuare – con le dovute precauzioni – a fare una vita normale.
Approfittate di queste giornate per fare delle passeggiate, per leggere un buon libro, non c’è alcun motivo – se state bene – di restare chiusi in casa. Non c’è alcun motivo per prendere d’assalto i supermercati e le farmacie, le mascherine lasciatele a chi è malato, servono solo a loro. La velocità con cui una malattia può spostarsi da un capo all’altro del mondo è figlia del nostro tempo, non esistono muri che le possano fermare, secoli fa si spostavano ugualmente, solo un po’ più lentamente.
Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile.
L’istinto atavico quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore. Rispetto alle epidemie del XIV e del XVII secolo noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna, non è poco credetemi, i suoi progressi, le sue certezze, usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità. Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero.

Vi aspetto presto a scuola.
Domenico Squillace

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Appendice del 2 marzo 2020

In questi tempi di tante notizie sul coronavirus, report scientifici – qualcuno anche falso -, e considerazioni etiche, abbiamo letto numerosi articoli.  Alcuni – come questo dal quotidiano cattolico Avvenire – www.avvenire.it – meritano a nostro giudizio la più ampia diffusione e condivisione.
La Redazione

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Editoriale. Il rovescio del muro. Il coronavirus, noi e molto da ricordare
di Marco Tarquinio
sabato 29 febbraio 2020

Non è stato bello né comodo ritrovarsi nel tempo del coronavirus, anzi del «ceppo italiano del Covid-19». Ma è accaduto. E da qualche giorno noi italiani ci siamo resi conto che ogni muro ha il suo rovescio. Per davvero. E che per ritrovarsi dalla parte del rovescio basta un attimo – e un microscopico, inquietante e ancora indecifrabile inghippo.

Abbiamo cominciato a capire che la logica del muro, e dell’ognun per sé, è quanto di peggio si possa contrabbandare in un mondo in cui nessuno si ammala e si salva sovranamente da solo, dove nessuno nel proprio cantuccio – che si chiami Codogno o Vo’ o con qualche nome esotico – si può chiamare fuori e consolare. Perché è anche lì, anzi è proprio lì, su questa terra dell’uomo dove ogni periferia è ormai centro, che c’è il fuoco e magari s’accende un focolaio.

Perché nessuno può stare alla finestra mentre si articola la sfida dell’umana fragilità. E poco importa, pur in realtà importando moltissimo, che questa eterna sfida riesploda a causa di virus o di ideologie odiose, di guerre o di un’ingiusta economia, di terremoti devastanti o per il clima in artificialmente accelerato cambiamento. Per quanto ci si creda assolti, ha saputo cantare De André, siamo per sempre coinvolti. E sebbene, qui e adesso, si stia parlando di un male sconosciuto, il coinvolgimento – o, se volete, la connessione, la reciproca dipendenza – è un bene che possiamo finalmente aver chiaro e che dobbiamo tener caro sino a tradurlo in fraternità in atto, in solidale con-cittadinanza in Italia e oltre. Unica seria e buona alternativa al muro, alla sua logica di esclusione e al suo inevitabile rovescio.

Quel rovescio dove non è stato bello né comodo ritrovarsi, ma istruttivo e persino salutare. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno di salute, fisica e morale. Salute di mani e menti pulite, preservata o ritrovata non solo e non tanto a forza di disinfettante antivirale, ma di limpido disinfestante dei pensieri e dei gesti torbidi e ostili che ci hanno avvelenato la vita, sconvolto le consuetudini e persino leggi del vivere civile e stravolto la faccia ben prima del fiorire di posti di blocco lungo la pianura padana e di mascherine su troppi nasi e bocche. Finora, infatti, quelli da guardare con sospetto e da additare con fastidio erano sempre altri, palesemente diversi da noi. In genere scuri di pelle e poveri di tutto. Ora, lo stiamo scrivendo da giorni, scopriamo che “gli altri”, i diversi, siamo noi. Noi, fino a ieri quelli delle 186 nazioni aperte e persino spalancate davanti al nostro passaporto.

Noi, incredibilmente riprecipitati nella condizione di gente da fermare alle frontiere, da bloccare al limitare di porti e aeroporti, da evitare in patria e all’estero. Noi, additati come spalloni e taxisti del coronavirus. E, persino, come “appestati”, anche se veniamo da un Paese di quasi sessanta milioni di abitanti, sino a questo momento con oltre cinquantanove milioni e novecento e tanti mila non contagiati (e con più guariti che schiantati anche dal Covid-19), e ancora dotato – nonostante sciupii di persone e di quattrini – di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo.

Ma le scoperte-rivelazioni non finiscono qui. Perché ogni rombo irresponsabile di titoli (di comizio e di giornale) si è dimostrato con plastica e drammatica potenza la colonna sonora anticipata di un crollo di titoli (di Borsa) e di credibilità per i titolati di un irriflessivo potere politico o mediatico. Perché lungo questa Penisola, bella come sempre e disertata come poche altre volte nella sua storia, stiamo censendo una costellazione di luoghi comuni capovolti, a cominciare da quello di un cruciale pezzo del Nord che attrae, lavora e produce ridotto a una ferita aperta che da Sud si guarda con stupefatto timore. E perché più d’uno ha meglio capito il nostro ripetuto allarme: quando si fa “guerra alla solidarietà”, a pagare – in modi anche imprevedibili – sono sempre gli innocenti e i deboli di turno. Scriviamolo sul rovescio del muro. E ricordiamocelo.

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https://www.avvenire.it/amp/opinioni/pagine/coronavirus-il-rovescio-del-muro/ [4]