di Enzo Di Giovanni – I Custodi della terra di Ponza
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Il modo migliore di iniziare questo scritto, che nasce come foto-racconto dell’evento “Scagnammece ‘a semmenta!” è invitarvi a leggere “Come si ascolta la terra cantare”, uno scritto di Enzo Bianchi appena inserito sul sito come commento al nostro articolo precedente.
Se infatti non si comprendono lo spirito e il senso di un rapporto con la Terra completamente da riscrivere, non si comprenderà nemmeno il perché dell’incontro cui abbiamo partecipato.
Quale è questo senso?
Cercare di ritrovare un equilibrio tra le conoscenze attuali, le tecnologie materiali ed immateriali di cui la globalizzazione è un prodotto, e il rapporto col nostro territorio.
Non solo noi ci crediamo, ma crediamo che se c’è un luogo fisico in cui si possa ridisegnare questa storia, questo luogo non possa che essere un’isola.
L’isola rappresenta un microcosmo decontestualizzato, un mondo a parte dove sperimentare, sapendo che gli effetti di ciò che si produce saranno, nel bene o nel male, visibili.
Non è un caso, come sappiamo, che i Borbone affidarono a Ponza l’idea che un gruppo di pionieri poveri, spesso disperati, potessero riuscire a costruire una comunità autonoma e a produrre ricchezza.
E non è un caso che un gruppo di questi pionieri andassero poi a colonizzare una nuova terra isolana, riuscendo a plasmarla ad immagine e somiglianza con la terra madre, fino ad importarne coltivazioni, pietre, toponimi, come successe a La Galite.
In un semplice concetto: su un’isola risulta evidente più che altrove il rapporto tra l’uomo e la terra (in senso lato, includendo anche il mare).
Quando Ponza viveva di agricoltura e di pesca, fino a metà dello scorso secolo, non vi era un centimetro quadrato che non fosse terrazzato e coltivato. I sentieri erano perfettamente tenuti, la canalizzazione delle acque era accuratamente gestita per utilizzare al meglio il prezioso elemento, e di conseguenza l’erosione e la dilavazione del suolo erano di molto contenute.
Di più: il lavoro dell’uomo produceva effetti “caratterizzanti”. La parracina non rappresentava solo un modo ingegnoso di contenere e mettere a frutto il terreno collinare, diventava elemento identificativo, armonico del paesaggio.
E allo stesso modo la biodiversità di specie che dovevano adattarsi a vivere in un clima arido, salino e ventoso assumeva caratteri del tutto particolari: da questo adattamento nasce, ad esempio, la lenticchia di Ponza e Ventotene, o la cicerchia, o alcuni tipi di pomodori di secca ed altri ortaggi che dovevano convivere con la penuria d’acqua.
Oggi Ponza non vive più di agricoltura, e pochissimo di pesca. Tanti saperi – e sapori – sono andati persi, come un codice genetico di cui non si riconosce la sequenza.
Eppure, mai come adesso, in questo mondo troppo uniformato, si avverte la necessità di riscoprire e salvaguardare la biodiversità, che non riguarda solo le colture agricole, ma anche i rapporti umani, ed in genere il rapporto con l’intero pianeta.
E’ questo il senso della nostra partecipazione come Custodi della Terra di Ponza all’incontro di ieri.
Eravamo curiosi, essendo la prima volta, di confrontarci con un mondo di cui non potevamo non cogliere le similitudini.
Il luogo dell’incontro è stata “La Casa della Cultura e dei Giovani di Pianura“.
Dal sito del Comune di Napoli: “Novecentodiciotto metri quadrati suddivisi in tre piani sono a disposizione del variegato mondo giovanile del territorio. In accordo con il Coordinamento dei familiari delle vittime innocenti di criminalità, gli spazi sono dedicati alle giovani vittime della Città di Napoli e il giardino interno porta il nome di Giuseppina di Fraia, la donna barbaramente uccisa dal marito poco più di un anno fa proprio a Pianura”.
Incontro, dicevamo, che nasce da un concetto semplice ma geniale: unire tanti piccoli produttori che presentavano ognuno le proprie specialità nel rispetto della filiera corta, cioè del passaggio diretto dal produttore al consumatore senza intermediari che sviliscono la qualità e la conoscenza del processo produttivo; ma soprattutto, produttori che contemporaneamente si scambiavano i semi, rigorosamente originali, col piacere genuino di condividere passioni e competenze.
Scambiarsi le sementi significa scambiarsi conoscenza, varietà di specie e di sapori, consentire la riscoperta o addirittura il salvataggio di specie credute perse, come il pomodoro “Re Umberto”: un pregiato pomodoro da conserva di cui si erano praticamente perse le tracce, se non fosse stato per la tenacia di pochi contadini che hanno continuato a custodirlo, e poi diffonderlo tra i diffusori dei semi antichi, come ci spiega Luigi.
Ovviamente lo abbiamo inserito nel nostro paniere!
Difficile sintetizzare in poche righe la cronaca della giornata: quello che si può fare, anche attraverso qualche immagine, è cercare di rimarcarne lo spirito.
Abbiamo avuto l’occasione di assaggiare dei deliziosi tortini con arance e mandorle tritate, pane dolce con uvetta e mandorle, salsicce di maiale allevato allo stato brado.
E poi cioccolato della qualità criollo, la più rara e pregiata varietà di cacao esistente (meno dell’uno per cento del totale!), importata direttamente da alcuni produttori del Madagascar, una delle poche aree in cui è ancora presente.
Abbiamo incontrato, l’Associazione Corto Circuito Flegreo, organizzatrice dell’evento con la loro apprezzabile azione sociale in nome di una agricoltura sostenibile e solidale: sul loro banco erano presenti degli avocado, che ci hanno raccontato provenire dai terreni di un signore di 85 anni che è riuscito a riprodurre una varietà importandola dal Sud America e sfruttando il microclima di un terreno campano. Un esperimento riuscito, di cui ci riproponiamo approfondimenti a breve.
I ragazzi di Seed Vicious da Firenze, che raccolgono semi da anni e contano oltre 180 iscritti, così come l’associazione Semicerchi da Latina che svolgono lo stesso prezioso lavoro di arricchire e condividere la propria banca semi.
Alcuni agricoltori baresi, tra cui Giuseppe, con cui abbiamo scambiato idee sullo sviluppo di una agricoltura sostenibile.
La cosa più importante è che questo evento non era una tantum, ma un appuntamento radicato nel territorio, che si rinnova di anno in anno. Soprattutto, all’interno di un rete di eventi che si susseguono e che danno linfa ad un mondo che non è più di nicchia, non può più esserlo, essendo di assoluta attualità le tematiche di cui si nutre.
Ed infatti, Seed Vicious ieri era presente in contemporanea in ben tre siti: oltre Pianura, anche in Toscana ed in Liguria.
Per I Custodi della Terra è stato una specie di “battesimo”, ma è chiaro che è solo un primo tassello di un obiettivo ambizioso.
Un ringraziamento a Frangisco Catania, anima dell’incontro e “ponte” per la nostra partecipazione.
Un saluto particolare poi a Luigi e Lina, appena conosciuti, cui ci accomuna il DNA isolano, essendo loro di Ischia, ma non solo, avendo parenti ponzesi…
P.S. – Abbiamo raccolto un po’ di semi, da distribuire agli iscritti all’associazione e a chiunque, nei limiti del possibile, voglia cimentarsi nella nobile e preziosa arte della salvaguardia dei semi antichi.
Segnalato da Sandro Vitiello
24 Febbraio 2020 at 10:03
Tutti alla tavola dell’accoglienza
di Enzo Bianchi (*)
Gli anni del secondo dopoguerra, una famiglia povera e precaria del Monferrato: queste le mie origini. Mio padre stagnava pentole e macchine da verderame, con poco guadagno. Per tirare avanti faceva anche il barbiere, sebbene pochi potessero pagarsi il lusso di farsi radere. Mia madre era gravemente malata al cuore, sapeva che se ne sarebbe andata presto e poteva fare poco, tra una crisi asmatica e l’altra. Morì quando avevo otto anni… La vita era grama, eppure in quel clima su cui incombevano la povertà e la morte ricordo la tavola come un magistero, per me ancora bambino. La cucina si affacciava sulla strada, e chi entrava era stupito dal grande tavolo in noce massiccio che si trovava di fronte.
Durante il giorno sul tavolo vi erano una tovaglia su cui stavano un pane (una grìssia), un fiasco di vino rosso (barbera o dolcetto) e un orciuolo con l’olio. Il tutto ricoperto da un tovagliolo ricamato a punto croce con la scritta: “Il pane, il vino e l’olio ci trasmettano lezione e sapienza”.
E così la tavola diventava un simbolo; anzi, oserei dire, un sacramento. Non era possibile entrare in casa senza vedere la maestà di quel pane, di quel vino e di quell’olio. Quell’icona racchiudeva un magistero grande: rispetto per quel pane che era vita (“senza pane c’è la morte”, si diceva); pane che aveva richiesto lavoro e sudore; pane raro nel dopoguerra, in particolare quello bianco; pane vegliato e atteso con trepidazione, soprattutto nei mesi di maggio e di giugno, quando sui campi di grano incombono i temporali con la “tempesta”, la grandine. C’era una venerazione per il pane da parte di tutti: mai sprecato, mai posato male sulla tavola, sempre condiviso.
Ma la tavola di casa mia aveva soprattutto una caratteristica: era spesso un luogo di accoglienza dello sconosciuto. Abitavo al centro del paese, davanti alla chiesa e all’unica piazza, luogo di arrivo di zingari, mendicanti, venditori ambulanti.
Proprio loro erano gli sconosciuti invitati a tavola, perché mio padre ripeteva: «È vergognoso dare da mangiare sulla porta!». Così fin da piccolo ho mangiato accanto a sconosciuti, spesso poco decenti, che a volte mi facevano paura, altre volte mi allietavano, come i “ramai” montenegrini. Ascoltavo le poche parole scambiate e imparavo ad accettare uno sconosciuto accanto a me. Tutti potevano essere ammessi a quella tavola, povera ma sempre capace di offrire pane, vino e verdure.
Sì, la tavola è il luogo di accoglienza dello sconosciuto, dello straniero, come ho sperimentato fin da piccolo. E siccome quelli erano tempi di fame e di penuria, ho capito ben presto che la festa nasce dall’azione del condividere più che da ciò che viene condiviso. Basta poco, ma se è condiviso, quel poco moltiplica lo stupore dell’incontro, la gioia. Di più, nella sua essenzialità di condivisione di pane, vino e poco altro, l’incontro a tavola infiamma i cuori e si apre all’ascolto dell’altro. E così quanti mangiano lo stesso pane imparano a essere “compagni” (cum-panis), a vivere insieme, mai senza l’altro.
(*) – L’autore Enzo Bianchi, 76 anni saggista e monaco laico, ha fondato la Comunità monastica di Bose in Piemonte – Da la Repubblica di oggi 24 febbraio 2020