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È ’nu cunto… (5). Lord Bentinck

di Francesco De Luca
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Chi fosse lord Bentinck me lo sono chiesto tanti anni dopo. A quel tempo non mi passava nemmeno per la testa né il nome, né il personaggio, né le imprese. Ero nell’età più spensierata della vita. Quella in cui l’amicizia è disinteressata e autentica, l’affetto è dato e ricambiato, i gravami della vita sono affrontati con la leggerezza del gioco. Insomma stavo vivendo la fanciullezza. Non soltanto io, con me la stava vivendo la generazione del dopoguerra, in un’atmosfera epocale di rinascita, di entusiasmo, di gioia di vivere. Succedeva per l’Italia intera, come hanno poi evidenziato i sociologi, e succedeva per la nostra piccola isola. Libera finalmente dalla cappa disonorevole di ‘luogo di prigione’, poteva dimostrare a tutti quante fossero le sue bellezze naturali, e quanta serena umanità ci fosse fra la sua gente.
– Di dove sei? – mi chiedevano a Roma, dove studiavo.
– Di Ponza – rispondevo.
– Ah… ma non c’è più il carcere… è vero?
E durante gli esami, il professore: – Sei di Ponza? Che fortuna… è una bellissima isola… ci sono stato…
Non nascondo che in quei frangenti il riferimento alla mia isola mi ha portato bene. Nei voti dico !

Devo aggiungere che la giovialità della vita era anche connessa col fatto che vado a raccontare un fatto svoltosi in estate, la stagione dell’anno più adatta a godere l’isola. Tant’è che per noi isolani ’a staggione per definizione, è l’estate.
E quel giorno si decise di andare allo scoglio della Ravia. A nuoto. Dalla Caletta alla Ravia. Impossibile, penserete. Il tratto di mare taglia proprio l’imboccatura del porto. C’è il divieto di balneazione, ci sono le navi, i natanti che vi trafficano.
No… no… niente di tutto questo, negli anni ’60 non era proscritta la balneazione nel porto. Se lo fosse stata noi saremmo stati privi di fare i tuffi dalle prue delle navi ancorate, dalla punta delle banchine nel porto. No… no… di nessuna nave era previsto l’arrivo nel mattino, e le barche da pesca a quell’ora erano al largo a guadagnarsi il pane. Può sembrare eccessivo ma era proprio così… si potevano tagliare le acque del porto a piacimento, perché tutto lo specchio del porto, con annesse le spiagge che vi insistevanoi: Santantuono, Giancos, Santa Maria, erano tutte accessibili a chiunque volesse bagnarsi.

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In pochi… erano pochissimi quelli che si davano ai bagni. Non gli attempati… quasi che fosse disdicevole per una persona matura cercare diletto fra le acque. Non i genitori, per le mamme poi c’era una tacita interdizione.
A poter dare sfogo all’esuberanza e cercare divertimento col mare erano soltanto i piccoli e gli adolescenti. Le ragazze, necessariamente in gruppo, mai sole, e, a fianco, i gruppi di giovanotti.
– Alla Ravia… andiamo alla Ravia…
– Ma lì non c’è niente…
– Che ne sai tu? Ci sei mai stato tu? Ce sta ’nu cannuncino… ce sta ’nu puzzo. E poi ’u sfizzio… Luvammece ’stu sfizzio .

Lo sfizio, è una parola che non si usa più tanto. Il tempo che stiamo vivendo, grandi e piccoli, non è incline allo sfizio. Non quello indotto, non quello programmato, non quello reclamizzato, bensì quello autentico, spigliato e improvvisato. Si coltiva volentieri nella fanciullezza. E infatti di quello sto parlando. E nemmeno da soli. Infatti chi decise? Tutti e nessuno. Ci sono sì gli intraprendenti, quelli più votati all’avventura, in forza dell’età, del vigore fisico, del carattere: Tommasino, Francuccio ’a Musella, Toppannuzzo (Giuovannino), Ughetto. Gli altri seguiamo, come insegna la psicologia dell’età evolutiva.
Siamo una decina, lasciamo alle spalle gli scogli neri della banchina e dirigiamo verso la Ravia. Insieme. Per aiutare chi avesse avuto bisogno, e per non restar dietro. Emulazione, gara, divertimento, un misto di tutto. La distanza è tanta e quando ci si stanca si lascia la bracciata libera e si nuota a rana, e quando anche di questo si è stufi, ci si riposa facendo il morto e poi si riprende all’inseguimento del primo, intanto fermo pure lui.
Ai primi scogli tutti a riprendere fiato.
Venite appresso a me – dice Tommasino. Lo seguiamo.

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Dirige verso una scaletta tagliata nella roccia, coi gradini cementati e regolari. Ai piedi c’è uno scoglio che rende agevole salire il primo gradino, e il resto va da sé. Un piccolo approdo, ricavato apposta per permettere il salto dalla barca alla scala. Stretta, ripida, con trenta-quaranta gradini, ora non ricordo più bene perché ne è passato di tempo. Ma ci vuole un attimo per farla tutta. Avevamo 12-13 anni, gambette sì ma agili. Sopra , un terrazzo ampio, delimitato da un muro. Da una parte una stanzona, intonaci scrostati, terra agli angoli. Del cannoncino nemmeno l’ombra, mentre dentro si apre la botola di una cisterna. Raccoglieva forse l’acqua piovana.
Una delusione? Noo… a quell’età e in quella circostanza nulla delude. Al contrario, tutto è esaltante. Dall’esterno si domina l’entrata del porto.
Tommasino supera il muretto di cinta per cercare di scendere la parete e trarre una base da cui poter fare un esaltante tuffo. E’ specialista in questo e non vuole demeritare. Francuccio mi chiama dentro, attratto da alcune scritte sui muri. Nomi, date, graffi sull’intonaco. Nulla di rilevante. Dico questo oggi a distanza di sessant’anni. Per dei ragazzi vogliosi di tutto l’importante era la novità.

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Stiamo sullo scoglio della Ravia. In alcune cartoline degli anni ’40 quello scoglio è denominato Rada. Lo scoglio della Rada. E la cosa è comprensibile perché è logica, lo scoglio è all’interno della rada. Dovette essere la conclusione cui arrivarono i deportati politici in confino sull’isola. Uomini acculturati ai quali la popolazione isolana chiedeva di stilare epigrafi e titoli e didascalie. Eppoi c’è da sottolineare che a seguire logicamente i percorsi del dialetto si perde il senno. Ravia infatti non ha alcun addentellato con un qualche significato… eppure questo è il nome che il popolo segue. Anzi c’è anche chi si infervora per l’irrazionalità del linguaggio popolare. Il che ha una sua ragione e un suo fascino. A patto che il tutto non trovi amplificazione eccessiva, perché l’ignoranza è tollerabile a piccole dosi e per breve durata.

Qui bene si inserisce lord Bentinck.
Perché?
Perché per un tratto di storia ponzese quello scoglio è stato identificato come il forte di lord Bentinck.
Egli fu a capo delle forze che dové riprendersi i territori sottratti da Gioacchino Murat (Re di Napoli dal 1808 al 1815) ai Borbone. In sostanza tutto il meridione eccetto la Sicilia dove si ritirò il re Ferdinando Borbone, re delle Due Sicilie, protetto dalla flotta britannica… Periodo napoleonico, aggressione di Napoleone ai regni italici.
Al termine dell’avventura di Murat e del suo regno i Francesi furono cacciati anche dalle isole, comprese quelle Ponziane (1813). Ma lord Bentinck, con senno militare, giudicò l’isola poco difendibile e si adoperò per fortificarla. Lo scoglio della Ravia lo ritenne strategico. Tagliò la montagna, creando una scaletta e, nella parte alta edificò una caserma dove insediare un cannone il cui tiro incrociava con quello sparato dal Lanternino. Questa però era l’ultima linea di difesa del porto giacché la prima aveva le sue postazioni sulla batteria Leopoldo (cimitero), sul Fortino a Frontone e sulla Torre. Quello sulla Ravia fu un vero colpo di genio perché trasformò uno scoglio nel mare in una postazione militare.

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Lo scoglio però aveva un padrone, certificato sulla particella catastale. Così nel dopoguerra (anni ’60) ci fu chi scelse quel locale come sede di ispirazione pittorica. L’acquistò infatti un pittore, e gli eredi ancora lo abitano in estate.
Quell’estate lo visitammo noi, e Tommasino gettando lo sguardo lontano intravede la sagoma della nave-cisterna che rifornisce d’acqua il paese.
– Dobbiamo fare un tragitto più lungo… – dice.
– Come? – chiedo – in che senso?
– Nel senso che per il ritorno dobbiamo costeggiare da Santa Maria fino al Porto. Non possiamo tagliare dritto perché fra poco entra la cisterna.
Si è tutti d’accordo. Bisogna andarsene in fretta.

Inutile puntualizzare che da allora non ci siamo andati più sulla Ravia e che l’immagine del panorama quella è stata e quella rimarrà per sempre. Sbiadita e confusa ma vera, scolpita nella memoria.

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Il ritorno è più gioioso. Più incline a farci dispetti, privi ormai dello stimolo della novità. Tanto è vero che tralasciamo di fare una capatina alle Grotte Azzurre, oltrepassiamo Santa Maria e giungiamo a Giancos.
Qui quello scapestrato di Ugo ci fa soffermare perché sotto allo scoglio di Frisio compare una capuzzella nera nelle onde. Gli istinti predatori di Ugo si scatenano. “ Uagliù… hamma piglià”.
“E comme ?”
“Tu vaie ’a ’na parte, tu vaie ‘a chell’ata parte e ie ’a piglio”.
Il dire è facile. Francuccio dalla parte della Russiella (per capirci), Toppannuzzo dalla parte di Giancos, io e Ugo di faccia all’uccello. L’animale – si tratta di un marangone –, vistosi accerchiato si dà alla fuga ma non col volo bensì immergendosi. Niente di più facile, pensa Ugo, fidando sulle sue capacità apnoiche.
È che non supponiamo che l’uccello sott’acqua è un vero siluro, non solo, ma ha anche un fiato che Ugo esce dall’acqua paonazzo in viso. Lo prendiamo in giro per tutto il restante tempo. Poi a Santantuono, Ughetto e Toppannuzzo ci lasciano.

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Dopo qualche anno fui io a lasciare la loro compagnia. Lo studio mi catapultò lontano dall’isola, dall’estate e dagli amici. La Ravia perse i connotati di uno scoglio su cui e intorno a cui divertirmi, e diventò oggetto di ricerca. Cosa vuol dire Ravia?
Eppure già Pasquale Mattej nel 1857 nel suo libro la chiama così, la chiama Ravia. E la postazione dovette essere stata utile all’armeria fascista per controllare l’ingresso nel porto durante il periodo del confino politico.

È lo scotto che fa pagare la conoscenza! Mitiga l’entusiasmo e la frivolezza! Come se il sapere sulle cose sminuisca la sua poeticità! No… non è questo lo scopo della conoscenza o almeno io non lo intendo così. Perciò mi soffermo volentieri sul piacere che provai allora e sul piacere che provo ora a comunicarvelo. Questo racconto non ha pretese storiche e nemmeno documentaristiche, vuole soltanto trasmettere l’emozione che provammo nell’attraversare lo specchio del porto a nuoto. Con l’incoscienza della fanciullezza.

Talvolta ho provato a dirlo ai figli. Io con animosità e fierezza e loro con incredulità.
– Stai dicendo fesserie… non è possibile fare quel tratto di mare in estate a nuoto, senza nessuna assistenza! Per cosa poi? Per ammirare un semplice paesaggio. Senza neppure un selfie!