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Per quelli che hanno perso la strada di casa. Un racconto di Natale

proposto da Sandro Vitiello

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Le feste natalizie sono un catalizzatore di emozioni e di ricordi.
Natale è la festa simbolo sia della cristianità che della famiglia, dell’appartenenza ad una comunità, ad un luogo.

[1]Cala Caparra

In tanti per le ragioni più varie hanno perso la possibilità di passare le festività con i propri cari oppure, come si dice, hanno un cuore diviso. Una parte della propria esistenza è legata al mondo dell’infanzia e una parte è la vita degli anni recenti, altrove.
Nostalgia, richiami alla tradizione, ricordo di persone che non ci sono più e altro ancora, fanno vivere le feste in una dimensione quasi sospesa. Pur avendo tutto intorno il calore dei tanti che ci vogliono bene.
Alcuni, purtroppo, la vita li ha portati lontano e l’unico legame che fa loro sentire l’appartenenza al proprio mondo è il ricordo delle tradizioni.
L’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano – nel farci gli auguri di Natale – ci propone uno scritto tratto dal diario di Armando Viselli, un giovane romano che nel ’51 partì alla volta del Canada, dove avrebbe lavorato per una compagnia italiana che costruiva ferrovie da quelle parti.

[2]Foreste del Canada

Armando non sarebbe più tornato a casa ma il Natale della sua gente lo ricordava bene.
Buone feste a tutti!

[3]

Presepe della chiesa di Le Forna

Arrivò la vigilia del Santo Natale senza accorgercene e soltanto poche ore prima della grande ora realizzammo che ci trovavamo isolati dal resto del mondo, boschi tutt’intorno e la neve che ci copriva. Cadeva una farinella fina fina, così fitta sembrava nebbia, non si vedevano nemmeno le luci della stazione.
Mentre da noi la sera della vigilia si fa un gran cenone. Qua tale usanza era sconosciuta, per loro il venticinque dicembre è il gran giorno. Per la sera della vigilia non preparano nulla di speciale, abitualmente passano la serata in compagnia sì ma piuttosto allegrotti, attendono l’arrivo di Babbo Natale e dopo la messa della mezzanotte aprono i regali ai bambini.
Durante la magra e malinconica cena notammo l’assenza di Giannuzzo, il più anziano del gruppo e come se d’intesa poco dopo, uno a uno, ci ritrovammo tutti sul vagone numero quattro dove lo trovammo seduto e accucciato vicino alla stufa con le lacrime agli occhi. Ognuno che arrivava ripeteva la stessa frase:
“Buon Natale compare Giannuzzo”.
“Buon Natale, buon Natale” – Rispondeva lui moscio moscio.
La calda espressione e la sincerità, la spontaneità di quelle parole non solo risollevarono il buon umore di compare Giannuzzo ma rianimarono e rallegrarono lo spirito di tutti i presenti, riportandoli per un breve istante a casa loro, tra i cari lontani.
C’è da immaginare quanta dolcezza e quanta tenerezza rievocavasi nelle loro menti. Da parte mia mentre nel pensare ai miei li vedevo riuniti intorno alla tavola seduti ognuno al proprio posto con papà che aveva appena finito di dire la preghiera di ringraziamento, tale visione veniva rimpiazzata da mamma intenta a friggere la famose “pizzelle” frittelle con dentro l’uva passita. Pare che tale scenetta offuscava tutto il resto e il pensiero delle pizzelle insieme al torrone mi facevano venire l’acquolina in bocca.
Ad un certo momento compare Giannuzzo si alzò e direttosi verso il suo posto, da sotto la branda tirò fuori la valigetta di legno, e l’appoggiò sul letto. Tutti gli occhi si puntarono su di lui e mentre silenziosamente tutti seguivano le sue mosse, aprì la valigetta, tirò fuori un pacchetto e religiosamente lo cominciò a scartare.
Che sarà e che non sarà la curiosità era grande e tutti gli si fecero intorno. Prima levò la pezza, poi tolse un foglio di carta straccia gialla, tipo di quella che ci incartava la pasta il fornaro, poi un altro foglio di carta oleata e finalmente vedemmo spuntare il tesoro.
Era una soppressata, conservata chissà come gelosamente fin dal lontano maggio, ed ora l’aveva tirata fuori per celebrare il Santo Natale.
Ogni mossa era pesata, mise la mano in tasca e tirò fuori un coltellino, aprì la lama, la pulì sui calzoni, poi come quando il sacerdote rispettosamente e devotamente con le dita prende l’ostia consacrata in mano, così fece lui con la soppressata, la trattava così delicatamente sembrava stesse toccando una cosa sacra, quasi quasi gli dispiaceva di tagliarla.
Come sempre, Franchino che non lasciava mai sfuggirsi l’occasione di punzecchiare non importa chi, dapprima ne seguì i movimenti in silenzio, poi persa la pazienza:
“Compare Giannuzzo. La vogliamo tagliare questa soppressata o prima ci dobbiamo fare la fotografia?”.