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I Re di Napoli

di Paolo Mennuni

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Elencare tutti i re di Napoli sarebbe lungo e tedioso. In circa settecento anni di regno (e vice regno) ce ne sono stati tanti e si correrebbe il rischio di dimenticarne più di qualcuno. Vogliamo, invece, limitarci a parlare di quegli otto re, rappresentati da altrettante statue, che “adornano” la facciata principale del Palazzo reale e che non possono sfuggire all’attenzione del turista anche il più distratto. Esse furono aggiunte in tempi relativamente recenti e con scopi ben precisi, come vedremo.

Il progetto originale del Palazzo, dell’architetto Domenico Fontana, realizzato all’inizio del ’600 per volontà del vice re Ferrante di Castro, al piano terra prevedeva un porticato i cui varchi, in seguito, furono chiusi alternativamente per conferire maggiore stabilità all’edificio. L’intervento avvenne, per opera del grande Luigi Vanvitelli, verso la metà del ’700. I varchi chiusi furono conformati in nicchie che, nel 1888, per volere di Umberto I, furono destinate ad alloggiare altrettanti personaggi a ricordo delle dinastie che si erano succedute nel governo dell’Italia del Sud.

Naturalmente il disegno di Umberto va letto con le dovute riserve; il suo intento non era quello di evocare i fasti della città di Napoli conquistata proditoriamente e del suo regno, di cui forse i Savoia, nonostante la conquista, subivano un inconfessato complesso d’inferiorità, ma quello, più subdolo, di celebrare il trionfo di Casa Savoia. Infatti l’ultima statua non rappresenta un re di Napoli ma Vittorio Emanuele II re d’Italia, e di questo anche diremo.

Veduta del palazzo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo

La successione delle statue è la seguente:

Ruggiero il Normanno che liberò prima la Sicilia dal dominio mussulmano e poi conquistò anche la parte continentale fondando il regno di Sicilia;

Federico II di Svevia che succedette la padre Enrico VI ma fu il più significativo della dinastia e fu anche il fondatore della prima Regia Universitas d’Italia. Con lui, Napoli entrò per la prima volta a far parte del Sacro Romano Impero;

Carlo I d’Angiò, fratello di S. Luigi di Francia chiamato da papa Clemente IV, che, dopo due anni, perdette la Sicilia in seguito ai moti dei Vespri;

Alfonso I d’Aragona che trasferì Napoli nell’orbita della Spagna;

Carlo V, Imperatore del Sacro Romano Impero (e di cui Napoli tornò a far parte ancora una volta) l’impero su cui non tramontava mai il sole;

Carlo di Borbone, primo re dopo la fase dei vice re ispano–austriaci;

Gioacchino Murat, cognato di Napoleone Bonaparte;

e, ultimo, ma non re di Napoli, Vittorio Emanuele II di Savoia.

Le otto statue vanno osservate e lette con attenzione perché, oltre a scandire i tempi della storia di Napoli, come già detto sottendono un’intenzione molto subdola. Non solo, si voleva osannare la Casa fondatrice del Regno d’Italia ma anche, contemporaneamente, si volevano appannare a tutti i costi i meriti della dinastia che più aveva operato per la grandezza e lo splendore di Napoli e del Regno: i Borbone.

Infatti, mentre tutti i re sono ritratti atteggiamenti marziali, Carlo, indicato impropriamente come Carlo III (di Spagna) è rappresentato come un elegante cicisbeo settecentesco con tanto di tricorno e bastone a sottolinearne quasi la frivolezza dell’uomo e la sua appartenenza ad una dinastia straniera, spagnola, appunto e dalla quale il Regno era stato liberato. Viceversa Carlo fu un accorto uomo di stato ed un grande mecenate protettore delle arti e delle scienze, nonché, l’autore delle opere più significative dello splendore della Napoli settecentesca, ossia del periodo del suo regno, e che assurse a capitale europea di rilievo artistico, politico e culturale; periodo, inoltre, in cui furono costruiti il Teatro di S. Carlo, le regge di Capodimonte, di Portici, di Caserta, dei siti reali di Carditello, Persano ed altri ancora, per non dire poi delle istituzioni scientifiche come l’Osservatorio vesuviano e l’Orto botanico. A Carlo si deve anche la Regia fabbrica di porcellane di Capodimonte Anche la grande piazza a lui dedicata, in cui sorge la mole gigantesca dell’Albergo dei poveri, struttura assistenziale unica nel suo genere in Italia all’epoca, riporta nella targa marmorea la dicitura: piazza Carlo III!

Tornando alla statua, però, l’artista, Raffaele Bellazzi nel proporlo in quella posa che abbiamo definito poco marziale rispetto agli altri Re, ha curato molto i particolari del suo abbigliamento, come le trine dello sciabò e dei posi, conferendogli una eleganza che lo distingue nettamente dalla tozza rozzezza del baffuto Re d’Italia, forse per rendergli quell’omaggio che i veri napoletani avrebbero voluto tributargli anche dopo oltre un secolo dalla sua dipartita.

Umberto I, figlio riconoscente di tanto padre (detto anche Padre della Patria!) volle che a conclusione della sfilata di regnanti fosse collocata anche il simulacro di suo padre, quel Vittorio Emanuele II di cui abbiamo detto pocanzi e che doveva, però, essere anche più grande di tutti, quasi a sigillo imperituro della grandezza e della gloria di Casa Savoia su tutte le altre casate precedenti! Ma la cosa non riuscì molto bene perché, data la dimensione della nicchia, uguale alle altre, la statua dovette essere collocata su di un piedistallo più basso perdendosi, quindi, quell’effetto ottico auspicato dal Re e, per questo, la statua sembra essere uguale a tutte le altre!

Le statue, volute da Umberto, sono però l’unica testimonianza di tutto quello che i Savoia hanno saputo (e voluto) fare per Napoli durante gli ottantacinque anni di dominio: cioè niente! Il vero intento era quello di inserire, alla fine di un discorso e di un percorso storico riveduto e (s)corretto, l’immagine di Vittorio Emanuele con una sciabola sguainata, di bronzo, in atteggiamento da conquistatore!
Su quello che i Savoia abbiano fatto per Napoli e per il Sud d’Italia il discorso sarebbe molto lungo e ci porterebbe assai lontano, per cui lo rimandiamo ad un’altra occasione.

Divertente è, invece la storiella che la fantasia dei napoletani ha imbastito proprio guardando gli atteggiamenti offerti dalle statue. La discussione coinvolge gli ultimi quattro personaggi: Carlo V, svegliandosi alle prime luci del mattino vede una pozza di acqua, o altro, in terra e, col dito indice proteso, sembra dire: “Chi ha fatto la pipì qui davanti al palazzo?”
Subito risponde con sussiego Carlo di Borbone: “I’ nun so’ stato. Nun saccio niente!”. Interviene poi Gioacchino Murat che, spavaldamente, dice: “Ebbene, sono stato io!” al che Vittorio Emanuele minacciandolo con la sua sciabola sentenzia: “Sarai severamente punito!” e minaccia l’amputazione.
Questa è la conclusione, molto partenopea, della storia delle statue del Palazzo reale di Napoli.
Un invito ad andarle a vedere (o rivedere) con attenzione.

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