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Il nuovo libro di Gabriella Nardacci. Presentazione sabato a Maenza

a cura della Redazione
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Segnaliamo con piacere la presentazione, a Maenza, del libro “Tempo che va tempo che viene”, della collaboratrice e amica Gabriella Nardacci.
L’introduzione del libro reca in epigrafe una frase di Cesare Pavese che si attaglia alle piccole realtà di paese, e può valere anche per Ponza:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante,
nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”

[Da “La luna e i falò” di Cesare Pavese]

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È la storia di un paese e delle persone che hanno fatto la sua storia. La storia di un’infanzia gioiosa, povera, trascorsa nei vicoli e tra i discorsi degli anziani. La storia di tradizioni, oggetti, campi da arare, processioni e pregiudizi…
Il racconto che è suddiviso nelle quattro stagioni, con qualche pagina finale in cui si parla di “Qualcosa fuori stagione”.

Alcune righe dalla parte finale dell’autunno.

“…ora mi basta sentire l’odore della legna che brucia nel camino, l’odore della menta che subito arriva dopo averci camminato sopra o, semplicemente, dopo averla accarezzata con la mano, l’odore dei frantoi che lavorano le olive, l’odore del pane avanzato pregno d’olio, l’odore del fumo del camino, l’odore di un libro nuovo, l’odore della pioggia e della nebbia, l’odore della cera di una candela, e anche l’odore di mia madre.
Sento così anche l’odore della malinconia e della nostalgia e del tempo che passa portandosi, sempre più lontano, tutto il tempo trascorso tra ninnoli e risate, tra i ricordi operosi e i sogni, tra le carezze del giorno e i pianti della sera quando no n si vedeva in cielo una sola stella e si aveva voglia di camminare scalzi.”.

Torna e ritorna, Gabriella, sul tempo che passa e sulle stagioni… Leggi qui [3] una sua poesia pubblicata sul sito…

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Qui di seguito la Prefazione della giornalista Giulia Laruffa.

In un contesto storico e sociale come quello che viviamo, in cui l’essere umano non ha più tempo per se stesso e per le cose che lo nutrono davvero, racconti come questo danno il respiro e il senso delle cose che abbiamo dimenticato di possedere.
Spesso viviamo le nostre vite alienandoci da noi stessi e dal nostro bisogno primario di amare e di essere amati, immersi in un tempo che corre veloce perché pieno di niente.
“Tempo che va, tempo che viene” ci riporta in un istante al contatto con i nostri sensi, unici testimoni sopravvissuti di una realtà che forse non ci è ancora sfuggita del tutto di mano, intrisa di un senso di tranquillità dato dalle cose reali che riguardano l’essenza di cui siamo fatti.
In questo senso, l’opera di Gabriella Nardacci è un testo pieno di speranze che come un balsamo curativo riapre lentamente lo sguardo di chi legge.
Proust, Kafka, Mann, Joyce rivoluzionarono il concetto stesso di romanzo grazie alla modificazione delle categorie principali che sostengono la vita dell’uomo e quindi della narrazione: spazio, tempo, causalità.
In particolare Proust, ne “Alla ricerca del tempo perduto”, modificò radicalmente la struttura del tempo nel romanzo facendogli fare un movimento dall’esterno verso l’interno. Così facendo riuscì a creare uno spazio dilatato e malleabile dentro se stesso che gli permise di ritrovare odori, luoghi, emozioni, ricordi perduti nel tempo fisico e ritrovati in quello interiore. Grazie al suo viaggio a ritroso, l’autore ritrovò se stesso.
Nelle descrizioni minuziose, ricche di particolari vividi e intensi, Gabriella Nardacci ci chiama a fare un viaggio molto simile a quello intrapreso da Proust. L’autrice, infatti, ricostruisce armadi, ricette, credenze, piazze e vicoli, pranzi e processioni come se fosse in un set cinematografico in cui gli oggetti e i paesaggi sono protagonisti vivi e parlanti; sembra chiedere aiuto al vento, alle foglie, ai colori e ai profumi per ricostruire un tempo apparentemente perduto che si ritrova e si disvela piano attraverso il ricordo di una vita vissuta. Come un’investigatrice, la protagonista e il suo io narrante si muovono e indagano per scoprire se qualcosa di importante sia davvero andato perduto o se sia rimasto nascosto dentro le pieghe di un ricordo non sbiadito.
Dall’infanzia alla vecchiaia scorre in queste pagine tutta la vita dell’essere umano con le sue età, le sue gioie e le difficoltà date dai suoi limiti.
Ci troviamo in un tempo che va e che viene in modo non consequenziale e senza un ordine prestabilito. Va e viene a seconda di come si sente il cuore di chi scrive in relazione a un certo ricordo e a una certa immagine di sé. Si tratta di un tempo soggetto alle leggi di un cuore che per una volta si è liberato dalla legge del tempo.
Solo così Gabriella può ricostruire se stessa e ritrovare la sua identità, riassaporando il gusto consolatorio del pane della cornacchia che torna nelle sue mani insieme al sorriso di suo padre o riannusando l’odore del bucato appena steso al sole che riappare ai suoi occhi insieme all’immagine di una giovane madre.
Accanto al ricordo dei turbamenti dell’adolescenza spicca la voglia di vivere dell’autrice che è la stessa che pulsava dentro ai pomeriggi silenziosi e desolati dell’infanzia trascorsa al paese. Grazie a questa pulsazione costante il tempo si mischia, si confonde e facilmente riesce a tornare in quel mondo antico in cui le sue mani sapevano riconoscere le erbe che oggi non distinguerebbe più.
Mentre si legge il racconto si ha spesso la sensazione di essere presi per mano e di intraprendere insieme all’autrice questo viaggio universale di ritorno a se stessi.
In fondo, in ogni casa c’è “il cassetto degli impicci” e saperlo, leggerne la descrizione, ricordarne l’esistenza diventa rassicurante perché ognuno di noi, prima o poi, ha voglia di tornare a casa, simbolicamente e fisicamente. Così come ognuno di noi da giovane ha covato il desiderio di scappare da qualcosa che poi in età adulta avrebbe ricercato, come la vecchia credenza sostituita da un pensile più moderno e mai più dimenticata.
Quando Proust ci fa annusare l’odore della petite madeleine all’ora del thè ci riporta al sentimento della consolazione che provavamo da bambini quando ci sentivamo perduti e afflitti; allo stesso modo la preparazione del pranzo di Pasqua a Maenza e la degustazione degli avanzi di Pasquetta ci mettono davanti alla possibilità di recuperare un pezzo di identità e di leggerezza che avevamo dimenticato.
Mentre il vento sposta la tenda ricavata da un vecchio lenzuolo si può annusare l’odore della primavera che sta per diventare estate e questo riesce a curare il cuore di chi legge facendolo entrare per un attimo in quel ritmo caldo, lento e raro per tutti noi che conduciamo una vita basata sulla produzione e non più sulla contemplazione.
“E quando ero fuori a studiare raccontavo ai miei amici di città i fatti del paese che diventava, come per magia, il paese in cui tutti si riconoscevano”.
Tra tempo e spazio sospesi la protagonista vive in due mondi molto diversi e distanti tra loro nel tentativo di conciliarli: la campagna e la città. Nella prima il tempo scorre lento, ci sono i pregiudizi, le false credenze e le ristrettezze di vedute, ma le cose che contano trovano ancora una loro collocazione. Nella seconda, pregna di un caos apparentemente più libero, il tempo scorre veloce e consuma rapidamente una vita fatta di cose che non hanno più odore.
La soluzione appare nel tentativo dell’autrice di recuperare il buono di entrambe le dimensioni e di integrarle all’interno del proprio sé. Lo può fare solo dopo essersi resa conto di non aver ancora trovato risposte alle domande che si poneva da bambina. Nel momento in cui ci si arrende a questo dato di fatto l’adulto che scrive può tornare a essere il ragazzino che sogna e comprendere che quel che cercava fuori può ritrovarlo oggi dentro se stesso grazie al ricordo di qualcosa che resta immutabile in ogni età e in ogni luogo, simbolico o reale che sia: il flusso della vita e il tentativo inutile dell’essere umano di governarlo.
La ricerca del tempo perduto, che viene e che va, di Gabriella Nardacci diventa così il viaggio di tutti noi, attraverso il susseguirsi delle stagioni che mutano insieme alle sensazioni a esse collegate e ai movimenti della natura che ci riportano alla semplice realtà del ciclo di nascita e morte, spietato e allo stesso tempo rassicurante
“Le foglie cominciano a marcire e i loro colori stanno sbiadendo. Così si muore” e si ritrova il senso della vita.

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La presentazione al castello baronale di Maenza