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Piccolo cabotaggio (14). Un altro giorno a Siracusa

di Tano Pirrone
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 .

“(…) Poi breve giro dei dintorni, Fonte Aretusa e il piccolo ma interessantissimo Acquario tropicale. Infine barca e riposino.”

Così avevamo chiuso il racconto dell’ultima tratta (leggi qui [2]). Dopo, il lungo silenzio, “La cesura” (leggi qui [3]).

Il riposino è breve, ma sufficiente per traghettarci in quella zona della sera, in cui i discorsi seri si mettono in coda e lasciano che a guidarci siano i sani borborigmi che in piena libertà reclamano quiete e ristoro.

La serata ventilata, anche un po’ umida, ci convince a scendere dalla barca e fare pochi passi per raggiungere una trattoria in una stradina poco dopo Piazza Duomo. Ne conosco il pittoresco proprietario e so che è come mangiare a casa di mamma, ai tempi. Sapori e qualità familiari. Venti minuti a piedi, tenendo il ritmo di S., e poi ci sediamo ad un tavolo della trattoria. Spaghetti co niuru di siccia (1) e tartàre di pesce spada è scelta comune; poco vino nei calici, ma veramente buono: un’Etna bianco, di uve Carricante e Catarrato, nate da viti onuste d’anni e d’indiscussa qualità, che popolano ordinate parti del versante nord del vulcano, a 700 metri di altezza, in suoli unici e tipici, composti da sabbie vulcaniche nere e rocce effusive, che danno al vino una decisa e gradevole sapidità minerale. Insomma, a farla breve, il vino è veramente buono, sposo di piatti di pesce e dell’odore di mare e di scirocco che ci avvolge. Ci dedichiamo al programma. L’intesa è lesta. Rimarremo ancora un giorno a Siracusa: mercato di Ortigia, teatro greco e latomie, museo archeologico, il Castello Eurialo, questa volta l’interno.

Ci dedichiamo poi a discutere del prosieguo del viaggio. Resetto le precedenti decisioni di continuare da solo. Era presumibile che, arrivato in Sicilia, rallentassi, inevitabile: prendiamoci tutto il tempo che vogliamo. Siamo veicoli che trasportano merce delicata, la cui incolumità detta il tempo al viaggio.
Brindiamo, quindi, con le ultime due dita di vino.
Lentissimo il ritorno alla barca e notte serena.

L’indomani, il compiacente autista di un’auto pubblica ci porta in giro seguendo puntualmente il programma convenuto: a Piazza Pancali scendiamo e dopo un ottimo caffè gustato nel bar di Corso Matteotti di elegante veste littoria, in pochi minuti, lasciandoci sulla destra il tempio di Apollo, da ventisei secoli ficcato al centro dell’isola delle quaglie ed ora immensa rotonda cui confluiscono Corso Umberto tramite il bel Ponte umbertino e Corso Matteotti, che la congiunge a Piazza Archimede.

Più di un’ora fra i banchi del mercato, affollatissimo di turisti in fila per mangiare in quei due o tre locali, che in fretta negli ultimi anni si sono trasformati da negozietti a spacci di panini imbottiti. Noi giriamo pian piano e facciamo visita al negozio d’angolo una volta pieno di spezie ed ora tentativo incerto di far concorrenza agli altri spacci; al furgone del formaggio del ragusano e ai banchi di pesce. Il mercato che ho tanto amato non c’è più, fagocitato in fretta dall’insaziabile folla. L’autista ci aspetta paziente all’ombra e gradisce il caffèfreddo che consumiamo in un bar nuovo nuovo. La mia istintiva atavica diffidenza viene smontata da un ottimo caffè, dolce, ghiacciato e granuloso, come dio comanda.

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Decidiamo di andare prima al Castello Maniace, che visitiamo accompagnati da un cane che ci fa da guida, silenziosamente, accucciandosi all’ombra quando noi ci fermiamo per vedere le straordinarie architetture e lo spettacolo del mare dalle finestre, e silenziosamente riprendendo il cammino, fino al termine della visita. Davanti al portone, si gira, ci guarda di sfuggita e va via. Il custode, prevenendo nostre domande, ci dice, con la massima naturalezza, indicando con un breve cenno della testa il cane che lentamente si allontana: – “Ha finito il turno ed ora va a mangiare a casa”. Non ci rimane che annuire con un sorrisetto complice e salutare: siamo tutti e tre canari e conosciamo bene come stanno certe cose nel mondo dei cani.

Davanti al museo archeologico ci aspetta E.R. caro amico di sempre, mio e dei miei fratelli: generoso, affettuoso, ospitale. E.R. ci invita a far colazione nel baretto sotto casa, con i tavoli fuori, sul marciapiedi, all’ombra. è quasi l’una, ora propizia, e il protocollo obbliga a non rifiutare l’invito. Non saranno le brioche capezzolatissime ad accompagnare la granita di mandorle, stavolta, ma le barocche mafaldine cosparse di ciciulena (2), comprate al volo dal giovane titolare del bar, obbedendo ad un cenno fattogli da E.R. I tempi della consumazione sono quelli locali: l’unica fretta è quella di non far sciogliere troppo le granite, già insidiate dai bocconi sfilacciati del pane ancora caldo.

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Il museo è dedicato al famoso archeologo Paolo Orsi (3), che ne ebbe la direzione nel periodo 1895-1934. È uno dei più importanti musei archeologici d’Europa: i reperti custoditi sono un’infinità. Rifuggiamo scientemente da una visita scrupolosa e pignola, come quella in cui s’impegnò nell’estate del 1979, il mio inseparabile amico Giovanni C. nel corso di una leggendaria gita agostana da Eraclea Minoa (4), dove avevamo piantato le tende in un boschetto di acacie sulla spiaggia, fino a Siracusa. La pignoleria con cui cominciò a esaminare i reperti, ordinatamente disposti negli armadi, pezzo per pezzo, ostinatamente infedele all’assunto vitale del “visto uno visti tutti”, ci lasciò avviliti, finché tutti all’unanimità decidemmo di abbandonarlo al suo destino. Non credo sia ancora là a ispezionare le migliaia di lucerne ad olio, perché nel frattempo il museo è stato spostato da piazza Duomo a questa nuova sede e i sistemi espositivi sono radicalmente cambiati.
Sacrificando centinaia di preziosissime opere d’arte scegliamo un percorso veloce per vegliardi dirozzati: la Venus Pudica (Venere Landolina) (5), il Kouros da Lentini (6), fine VI, inizio V secolo, il Cavaliere, forse acroterio, da Kamarina, VI secolo a.C. (7) e, per finire, l’esemplare di elefante nano Elephas (Palaeoxodon) Falconeri (8).

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Oggi è giornata di riposo al Teatro Greco: gli spettacoli (9) in programma riprenderanno domani; è permesso, quindi, l’accesso ai visitatori. Ne approfittiamo e ci affidiamo ad una giovane guida che con molta abilità e pazienza ci conduce lungo un percorso non esaustivo permettendoci di visitare il Teatro Greco, l’Ara di Ierone, le Latomie (l’Orecchio di Dionisio, la Latomia del Paradiso, la Grotta dei Cordari) (10). Per me si tratta di un’ascesa al tempio dei ricordi. Al termine siamo stanchi. Il pomeriggio volge al termine e si appresta a dare il cambio ad una sera limpida, piena di stelle e di fantasmi che tornano finalmente ai loro luoghi.

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Siamo in barca. Domani partiremo, lambendo la costa per passare lo Stretto e rifugiarci nel porto turistico di Milazzo. Da lì, poi, tradendo l’iniziale intento di andare fino ad Ustica, ci inoltreremo nel mare di Eolo.

Il mozzicone di sigaro, l’ottimo Garibaldi grande, avanzo di una giornata di semi astinenza, mi tiene compagnia mentre annoto l’informazione che ho avuto da E.R.: dal 2009 a Ortigia, nel mese di luglio, ha luogo un festival del Cinema: OFF – Ortigia Film Festival.

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’U scogghiu (11) diventa arena ed ospita schermi e poltroncine. Focus della rassegna è essenzialmente il cinema italiano, mediterraneo, siciliano. Anima dell’iniziativa sono quindi i concorsi di lungometraggi, opere prime e seconde italiane e cortometraggi internazionali. OFF è anche vetrina di documentari, retrospettive, anteprime, omaggi a grandi autori, film di recente produzione, inediti di autori emergenti, capolavori della storia del cinema, mostre, istallazioni, workshop, incontri con gli autori e altri eventi collaterali. Sembra la lista dei sogni, ma ho avuto conferma che sono molto attivi. Rai1 ha mandato in onda un documentario su OFF. Fatto bene: protagonista è, ovviamente, Ortigia, stralucente e meritatamente patrimonio dell’Unesco (12). Numerosi sono gli ospiti ed il clima è quello di un’autentica festa popolare. Gli organizzatori parlano, infatti, di 20.000 persone che solo nel 2017 hanno affollato i luoghi della manifestazione. Segnaliamo che tagliando il traguardo dell’undicesima edizione è diventata la manifestazione culturale aretusea più longeva dopo le Rappresentazioni Classiche.

La lunga farcitissima giornata è ormai finita e tutti dormono. A nulla vale il mio poco convinto tentativo di resistenza: gli occhi in piena autonomia mi si chiudono.


Note

(1) – In giro per i supermercati vendono bustine di plastica con dentro un umore nero, spacciato per nero di seppia, u niuro di sicci. Sarà, ma il nero di seppia si prende direttamente dalla seppia. Bisogna, poi, seguire le istruzioni fedelmente senza presunzione e senza fantasia. Le istruzioni sono quelle che il grande Giuseppe Coria ci dà a pag. 306 della sua monumentale opera Profumi di Sicilia. Il libro della cucina siciliana, prefazione di Antonino Buttitta, Vito Cavallotto editore, II edizione 2006.
Sicci Niuri o Niuru di Sicci (Seppie al Nero o Nero di Seppie), VII-125
“Le seppie così preparate costituiscono un piatto di mezzo. Col sugo nero si condiscono gli spaghetti dando vita ad un originalissimo piatto che ai neofiti può non apparire gradevole all’aspetto, ma il cui gusto è però eccezionalmente buono. Questa preparazione non è solo siciliana, ma è diffusa in molte altre regioni, specialmente nel Veneto”.
Pulire le seppie, avendo cura di mettere da parte le vescichette col nero, e tagliarle a piccoli pezzi. Per 1 kg di seppie già pulite, in un tegame mettere 2 cucchiai d’olio, 2 spicchi d’aglio tritati, un pezzettino di cipolla grattugiata, farli insaporire per qualche minuto, quindi aggiungere le seppie, pepe e prezzemolo trito. A fiamma bassa, quando le seppie iniziano ad emettere il loro umore, aggiungere un cucchiaino di “strattu” diluito in poca acqua, e la polpa di 200 g di pomodori maturi. Far cuocere a fuoco stanco per 25 minuti, aggiustare di sale e solo a questo punto unire il nero delle vescichette. Mescolare bene, lasciar cuocere ancora per 5 minuti, quindi servire. Qualora si voglia maggior quantitativo di sughetto per condire gli spaghetti diluire con acqua (poca) qualche momento prima di mettere il nero.”

(2) – Ciciulena. I semi di sesamo, comunissimi nel mondo arabo (giulgiulan) si sparsero nell’Europa conquistata dagli arabi e diventarono in Spagna “ajionjoli” e in Sicilia, una e trina, ciciulena, giurgiulena, giggiulena/giuggiulena o ghigghiulena (come a Palazzolo Acreide e a Ragusa). Ciciulena si chiama e si chiama ancora (spero) il sesamo. Mia madre preparava l’omonimo dolce, simile al torrone, ma i cui ingredienti erano: semi di sesamo, zucchero, buccia d’arancia grattugiata e qualche mandorla o nocciola “atturrata”, tostata. Con abilità si faceva sciogliere lo zucchero nel paiolo di rame per poi mescolarvi per qualche minuto gli altri ingredienti. Non mi ricordo se ci fosse anche qualche spruzzata di cannella. Chiudendo gli occhi cerco di ricordare, ma abbino l’odore della cannella ad altri dolci, non a questo. Dal paiolo l’impasto veniva versato sul piano di marmo e gli si dava una forma rettangolare ed un’altezza di un centimetro a poco più. Ancora caldo si tagliava in barrette, che venivano fatte freddare e stipate. Nella Sicilia occidentale, ma pure a Modica, è invece chiamato “cubbaita”, voce dalla storia controversa e intricata. Andrea Camilleri ha scritto un “Elogio della cubaita dell’Antico Torronificio Nisseno”. Sono solo un paio di pagine, che non si possono ignorare. Basta andare sul sito “Camilleri Fans Club” (www.vigata,org/bibliografia/elogiodellacubata.shtml [13]).
Un libro collettivo edito da Slow Food, “Ricette di Osterie e Genti di Sicilia”, riporta ricette antiche, fedelmente eseguite ognuna da un ristoratore diverso, agli altri accomunato dalla cura anche filologica con cui vengono preparate. A pagina 169 è riportata “Giuggiulena (cubaita)” con una lunga ricostruzione storica, di cui più sopra abbiamo citato alcuni passi.

(3) – Pietro Paolo Giorgio Orsi (Rovereto, 1859 – Ivi, 1935). Archeologo. Studiò a Vienna e Padova. Fu soprintendente a Siracusa e, dal 1907, ebbe anche la responsabilità della Calabria. Con numerose campagne di scavo pose le basi dell’archeologia moderna in Sicilia orientale e nel Bruzio: per quanto riguarda la preistoria, l’abitato neolitico di Stentinello e la necropoli sicula di Pantalica; nell’ambito delle colonie greche, Siracusa, Locri, Megara Hyblaea, Leontini, Gela, Camarina, capo Colonna (Crotone), Caulonia, Medma, Ipponio. Si impegnò anche per le antichità bizantine della Sicilia e della Calabria. Membro dell’Accademia dei Lincei dal 1896, fu nominato senatore nel 1924. (Furio Jesi, L’Enciclopedia, La Biblioteca di Repubblica, vol. XV.)

(4) – Eraclea Minoa. Antica città greca della Sicilia sud occidentale, fondata, secondo Erodoto, dai Selinuntini, che la chiamarono originariamente Minoa. Le sue rovine si trovano nell’area archeologica di Cattolica Eraclea (da Wikipedia).

(5) – La Venere Landolina è una scultura marmorea, copia romana di un originale greco della prima metà del I secolo a. C., rinvenuta in un ninfeo da Saverio Landolina Nava, nel 1804. La statua, una Venus pudica, si ispira, come le altre varianti del tema, all’Afrodite cnidia di Prassitele, con particolari similitudini con la Venere capitolina e la Venere de’ Medici (solo quest’ultima è un originale greco). Del tipo landolino si conoscono varie copie.
L’opera ritrae Venere al bagno, nella posizione pudica o, più probabilmente, una Venere Anadiomene, cioè nascente. Essa infatti si copre con la destra il seno, ruotando elegantemente la testa, e con la sinistra regge un panno calato sui fianchi (come la Venere di Milo), che si apre teatralmente gonfiato dal vento, rivelando le gambe della dea.

(6)  Il kouros, è una tipologia di statua greca raffigurante un giovane in posizione statica, con funzione funeraria o votiva molto diffusa nel periodo arcaico e classico, tra il VII e il V secolo a. C. Quella esposta a Siracusa è una scultura tardo arcaica (530-490 a.C. ca), ricavata da un unico blocco di marmo bianco proveniente quasi certamente dalle isole Cicladi. La statua ritrovata era acefala. Non molto lontano era stata ritrovata una testa. Le due parti erano state rinvenute in epoche diverse (tra Settecento e primi del Novecento) a Lentini, l’antica Lentinoi, una delle più antiche colonie greche di Sicilia, nell’attuale provincia di Siracusa e, successivamente, esposte separatamente a Siracusa, nel Museo archeologico Paolo Orsi (il busto) e a Catania, nel Museo civico di Castello Ursino (la testa). Il primo ad affermare con sicurezza che si trattasse di parti della stessa statua era stato nel 1927 l’archeologo siciliano Guido Libertini. Un’équipe di esperti di varie discipline, che ha studiato congiuntamente il torso e la testa ha riconosciuto l’appartenenza delle due parti ad un’unica statua, portando a compimento il meticoloso intervento conservativo, e l’unione delle due parti, adagiate su un basamento in marmo grigio.

(7) – L’elegantissima, moderna scultura equestre, probabilmente era ‘‘posta in alto sopra un tempio’’, da cui l’appellativo ‘‘acroterio’’.

(8) – Palaeoloxodon falconeri è una specie estinta di elefante endemico della Sicilia e dell’arcipelago maltese, strettamente imparentata con il moderno elefante asiatico. La denominazione Falconeri fu attribuita in onore di Hugh Falconer, il quale descrisse originariamente i più piccoli molari di questa specie come appartenenti ad Elephas melitensis. Questo elefante insulare, con un’altezza di soli 90 cm, fu un chiaro esempio di nanismo insulare. Gli antenati di P. Falconeri raggiunsero molto probabilmente le isole del Mediterraneo durante le ere glaciali, quando il livello del mare si abbassò notevolmente.

(9) – Rappresentazioni classiche. Dopo 1087 anni nel Teatro Greco di Siracusa, il 15 aprile 1914 è messa in scena una tragedia della Classicità, l’Agamennone di Eschilo, tradotta e diretta da Ettore Romagnoli. La rinascita è merito del siracusano Mario Tommaso Gargallo, che nel 1913 costituì un comitato promotore con l’ambizione di ridare vita al dramma antico presso il suo “spazio naturale”, il Teatro Greco di Siracusa.

(10) – Tralasciamo tante cose in questa brevissima visita, e tanti luoghi: fra questi, la rinuncia più amara, eppur necessaria, è quella alle Latomie dei Cappuccini e allo storico Grand Hotel Villa Politi.

(11) – Lo scoglio. Così i vecchi ortigiani chiamano ancora oggi la minuscola isola di Ortigia, il Centro Città più disassato che conosca, esteso soltanto: 0,604 kmq.

(12) – Il documentario Ortigia Film Festival 11 è reperibile su RaiPlay.

[Piccolo cabotaggio (14). Siracusa (seconda parte) – Continua]