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In genere non intervengo mai su argomenti di cui anch’io ho più volte parlato in molti scritti. Ma l’articolo di Antonio Pennacchi (leggi qui) mi “solletica” perché dimostra come la scuola stia diventando sempre più povera di contenuti e non solo.
Si è appiattita e mi domando cosa andranno ad insegnare i futuri insegnanti se non avranno “padronanza” della loro disciplina. Si cadrà sempre più in basso. Ma ciò, a mio avviso, è voluto ad arte perché ne tra e vantaggio chi ne sa di più. Così come avveniva tanti anni fa quando la maggioranza delle persone erano “ignoranti” cioè analfabete.
Così ripenso a mia nonna quando mi raccontava ciò che era accaduto a suo nonno, analfabeta, irretito da una persona “alfabetizzata”. Lo capii ancor più quando, ancora supplente, in una classe finale delle superiori andai a discutere sul problema del canale di Panama. Gli alunni non sapevano dove fosse ubicato! Mi contestarono dicendo che era… nozionismo (allora questo termine era di moda). Al che risposi che non avevo chiesto quanto fosse lungo il suddetto canale o quante chiuse avesse o il nome dei laghi che attraversava, bensì dove fosse ubicato perché l’ubicazione era importante ai fini militari ed economici.
Nel corso degli anni la “cenerentola” delle materie letterarie, la geografia, fu ridotta “a brandelli” perché le fu data un’impostazione “globale”. Al ragazzo o bambino delle medie riesce difficile, ad esempio capire “l’insieme” dell’agricoltura o dell’industria di una nazione. Nella sua mente si aggrovigliano varie notizie ma, in definitiva, a lui rimane poco o nulla perché non sono elargite in modo sistematico. Così non riesce ad ubicare città importanti né conosce quelle minori (ma tanto ora ci sono il GPS e il navigatore!). Né riesce ad ubicare i fiumi che hanno avuto ed hanno un’enorme importanza per la storia e per l’economia di una nazione.
Nel tempo in cui l’insegnante saliva letteralmente in cattedra perché questa era sovrapposta ad una pedana, quando frequentavo la vecchia scuola media (non quella unificata), il professore di geografia ci divise in gruppi che gareggiavano tra loro. Ci chiamava alla cattedra in quattro alla volta di ogni gruppo.
Innanzitutto cartina muta. Dovevamo indicare con esattezza l’ubicazione dei fiumi, dei monti e delle città. Quante erano, ad esempio, le isole Ponziane ed i loro nomi (anche la Botte!). Ed altro. Ma quello che mi è rimasto nella memoria è questa domanda, rivolta a me “di persona, personalmente”: – Quale fu la capitale di Tamerlano? (storia e geografia insieme!).
Risposi tranquillamente: – Samarcanda.
Questa era la scuola di una volta almeno così io l’ho vissuta. Quando arrivava il nuovo professore di storia la prima cosa che ci chiedevamo con terrore: – Chiede le date!?.
– Quando è nato Garibaldi? E Giuseppe Mazzini? – chiedeva – Parlami della dominazione spagnola in Italia. E giù a parlare della Lombardia o del regno di Napoli. – Eh no! Manca ancora qualcosa: lo Stato dei presidi. Accidenti!
– Chi era Castruccio Castracani? (e qui il cognome induceva, a quei tempi, ad una risata “a bocca chiusa”).
– Che cosa ha fatto Uguccione della Faggiola? Dove ha sconfitto i fiorentini, in quale anno? – E così via. Non mancavano il nome delle battaglie di tutte le guerre risorgimentali. E non mi dilungo.
Nelle difficoltà ci si guarda intorno in attesa di qualche “anima pia ovvero suggeritore”. Un compagno è in enorme difficoltà. Alle domande si liscia il mento e non proferisce parola mentre si guarda intorno “Aita, aita, parea dicesse”.
I due buontemponi al primo banco danno, sottovoce, il primo suggerimento: “Il primo capitolo…, il primo capitolo!”.
Il professore: “Allora di cosa mi vuoi parlare?”
Quello di rimando: “Del primo capitolo”.
Il prof: – Bene parlami del primo capitolo.
L’alunno tace ancora mentre torna a guardarsi intorno. Quelli del primo banco, sottovoce: – L’introduzione… l’introduzione!
Il professore, spazientito: – Allora?
Il poverino, forse preso dal panico: – Professore -, dice – voglio parlare… dell’introduzione!
Una risata generale che induce a sorridere anche il severo insegnante. Lo rimanda a posto e gli consiglia di studiare.
Storia e.. storie di altri tempi, obbrobriosi! Nozionismo puro! Ma, come nella beata gioventù mi divertivo a chiedere al vecchio gestore di un tabacchino un chilo di… cloruro di sodio (sale) e quello mi guardava stupefatto, così oggi, ad esempio, molti non sanno che il Colosseo e l’Anfiteatro Flavio sono la stessa cosa. Qualcuno, inoltre, pensa che l’arco di Tito sia l’attrezzo di un famoso campione olimpionico del tiro con l’arco e così via.
– Tanto a che serve!? – direbbe qualcuno senza pensarci su. Ma con un po’ di riflessione si riesce a capire il valore dei contenuti delle discipline anche se questi sembrano, di primo acchito, non servire a niente. Invece si parla e si agisce anche secondo la conoscenza di quello che si conosce. Ma non ce ne accorgiamo. Un po’ come quando si mangia con le posate e si porta il cibo alla bocca: non ci stai a pensare! Poi, in questo mondo fatto di messaggi televisivi, nessuno ti viene a spiegare, seduta stante, ciò che si è detto dall’altra parte dello schermo. E allora si crede di capire, si finge di capire, si capisce il contrario di quello che hanno detto. Ma soprattutto non si possiede la coscienza critica di capire di non avere capito e quindi di andarsi a documentare (si diviene presuntuosi).
Ma il contenuto non si possiede a pieno se non si possiede la memoria: qualsiasi contenuto, anche quello più banale, ha bisogno della memoria.
Le poesie a memoria e poi la loro parafrasi erano pane quotidiano fin dalle elementari: da Pianto Antico (che mi fu chiesta all’esame di ammissione alla scuola media) al 5 Maggio, dall’introduzione dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide (tradotte rispettivamente, nella lingua del loro tempo, dal Monti, Pindemonte ed Annibal Caro) a La Caduta e la Vergine cuccia passando per un passo dei Sepolcri ed ai sonetti del Foscolo. Ecco l’ostica Miramar di Carducci e poi La mia sera e La cavallina storna fino a Se questo è un uomo, passando per La pioggia nel pineto, La signorina Felicita, I fiumi, Meriggiare pallido e assorto e Le fronde dei salici. Molti passi della tre cantiche della Divina Commedia. E il dolce Petrarca e Leopardi, musicale, e Ariosto e Tasso e Tassoni e tantissime altre che non cito.
Per non dire poi, come ho già scritto, dell’Addio ai monti nei Promessi Sposi che velatamente e sommessamente provocò una piccola contestazione nei confronti dell’insegnante. Il quale, accortosi di ciò, replicò: – E che! Questa e pura poesia! – e a dimostrazione di ciò ce la divise in versi.
Ma tornando ai nostri giorni al tempo in cui qualcuno ( anche collega) mi contestava dicendo: “ Ma tu fai imparare ancora le poesie a memoria?” replicavo cercando di dimostrare l’importanza della memoria. Se da una parte, infatti, la memoria, a mio avviso, è come l’ingranaggio di un attrezzo meccanico che deve essere costantemente oleato altrimenti si arrugginisce, dall’altra serve anche all’insegnante per molteplici scopi:
a) verificare in breve tempo tutta la classe anche se numerosa;
b) vedere la buona volontà o meno nell’applicazione dell’alunno perché essa è essenzialmente “un fatto meccanico” (così l’alunno non può trincerarsi dietro al solito: – Professore, non ho capito);
c) dimostravo ai discenti di avere padronanza della materia poiché quasi mai aprivo l’antologia ma mi ponevo solo in ascolto, stando seduto anche in mezzo agli alunni (sulla stessa sedia da dove si era alzato l’alunno) – Voi siete gli insegnanti, adesso” – dicevo;
d) serve anche come stimolo. Molte volte, infatti, agli alunni riottosi, minacciavo di far copiare la poesia fino a che essi non l’avevano imparata a memoria. Poi, però, quasi sempre giungevo a un compromesso: – Se tu mi prometti – gli dicevo – che la prossima volta me la saprai dire, io non te la faccio copiare. Vedevo il suo viso illuminarsi: era contento… e anch’io!
Strategie dettate dal buon senso! Avevo raggiunto il mio scopo! Aiutavo, ovviamente, chi vedevo in difficoltà oggettiva. D’altra parte come chiunque che lavora – sia esso operaio, professionista o anche genitore – rimane soddisfatto e contento allorché vede che i suoi sforzi non sono vanificati ed il frutto del suo lavoro è positivo, così l’insegnante è contento e soddisfatto quando vede la crescita dell’alunno dal lato umano e dal lato culturale.
Per avere la conoscenza, quindi, si ha bisogno della memoria. Sulla vecchia conoscenza si inserisce la nuova che si serve per l’appunto della memoria. Più si conosce, diceva don Milani, più si è padroni di se stessi e soprattutto, secondo me, si ottiene la vera libertà. Perché si è liberi di pensare ma a ragion veduta e di conseguenza si è liberi di agire.
Un esempio banale: se si sa cucinare un piatto che ad un’altra persona di famiglia poco piace (per cui non gli viene mai cotto), avendo conoscenza di come si cucina, qualche volta si può affrontare i fornelli da se stessi senza dipendere da un’altra persona. Insomma si è veramente liberi di scegliere. E questo esempio è valido in ogni situazione.
Mi sovviene, ancora una volta, quando, ancora giovane capitai in una scuola (che non dico) a fare supplenza di storia in una terza media. Trentatré alunni (quanti gli anni di Nostro Signore!). Durante una lezione sento bussare alla porta.
– Avanti – dico. E’ Il preside. Tutti in piedi. Un uomo dall’area severa ma nello stesso tempo signorile: dei presidi di una volta. Ci alziamo. Lui: – Professore non si preoccupi, continui pure. In silenzio fa un giro per i banchi e va via.
Anni dopo capitai nella stessa scuola ed un collega, membro dell’allora consiglio di presidenza mi raccontò il motivo per cui il preside si era presentato in classe (meravigliato lo aveva raccontato il preside stesso in sede di consiglio di presidenza). Dunque: quella era considerata una classe “terribile e turbolenta”: piena di alunni vivaci. Passando di là invece del solito chiasso, il preside, con suo enorme stupore, aveva avvertito un silenzio assoluto. Preoccupato si era precipitato in classe perché aveva pensato: “Costoro hanno “accoppato” il giovane professore”. Invece aveva trovato che la classe pendeva dalle labbra di quel giovane professore che, appoggiato alla cattedra, illustrava gli avvenimenti dei primi dell’800 senza usare il libro di testo.
Come un bravo medico che prima visita il paziente, si fa un’idea della malattia e poi va a guardare il referto di eventuali diagnosi per immagini, così quel professore prima spiegava la lezione e poi l’andava a confrontare con le pagine del testo per dare la possibilità ai ragazzi di avere qualcosa di tangibile su cui studiare. Il tutto supportato, guarda caso, dalla conoscenza che deriva dalla memoria.
In conclusione si può affermare che senza memoria si precipita in un analfabetismo intrinseco e di cordata (perché l’uno tira l’altro). Padre, tra l’altro, anche della presunzione.
La buona memoria, poi, riesce a rendere tangibile ciò che oramai rimane per forza di cose (dico purtroppo!) intangibile.
Un’ultima chicca: serve o non serve l’analisi logica? In uno dei tanti corsi di aggiornamento propinati ed obbligati, un relatore anzi una relatrice di “alto rango” ci venne a dire che oramai questa non aveva più senso di esistere nella scuola.
“Ai posteri l’ardua sentenza!”
Pasquale
Nota della Redazione
Per illustrare questo articolo sulla scuola dei tempi di Pasquale sono state scelte le immagini di Amarcord, film di Fellini del 1973, ben consapevoli che la rievocazione del regista si riferisce alla scuola di un periodo precedente, quella del “deprecato ventennio”