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Nel trigesimo della morte di me’ cucinu Camilleri

di Tano Pirrone

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Era consuetudine, nel mio paese, come in tutta la Sicilia e nel meridione in genere, partecipare la morte di qualcuno affiggendo rituali manifesti lungo le strade più importanti, nella piazza principale e nei pressi delle abitazioni della persona defunta e dei suoi familiari: le “carte da morto”, quasi sempre dello stesso formato e con poche variazioni nella grafica e nei contenuti.
Dopo qualche giorno si affiggevano i ringraziamenti per chi aveva partecipato in qualche modo al dolore della famiglia… cordoglio e vicinanza. Puntuali, al trentesimo giorno, le “carte da morto” per la prima scadenza commemorativa, il trigesimo.
La forte parola evocatrice era stampata in alto, centralmente, in caratteri duri adatti alla circostanza, appropriati al dolore ancora vivo per la recente scomparsa, la cui eco non s’era ancora affievolita: TRIGESIMO.

I tempi sono cambiati, i divieti di affissione aumentati ed io vado in Sicilia sempre più raramente e comprensibilmente non mi informo sugli usi attuali delle “carte da morto”.
Leggo, questo sì, tutti i giorni, i necrologi pubblicati su la Repubblica. Non ci sarà bisogno di leggere i giornali, però, stanotte, quando, senza bisogno di aspettare che aprano le edicole, leggerò i miei “necessari” quotidiani on line, con maggior piacere degli altri giorni, vista l’astinenza di oggi a causa della santificazione tutta italiana delle Feriae Augusti; non ci sarà bisogno di trovare l’annuncio del trigesimo della morte di Andrea Camilleri, di me’ cucinu Camilleri, per sapere che il vecchio Tiresia, strambo fino alla fine, è morto il 17 luglio, ma già il 17 giugno era come se fosse morto.
Vivo ma morto. E poi morto ma vivo. Sempre nell’eterna contraddizione fra ciò che sembra e ciò che è. L’acqua prende la forma del recipiente. Non ha forma in sé, ma la riceve dal suo recipiente; dalla natura dell’oggetto che l’accoglie trova la forma, sempre instabile, sempre pronta ad uniformarsi al contenitore e ancor più pronta a evadere e a cambiare, sempre instabile, sfuggente, impossedibile.

Di Camilleri scoprii l’esistenza per caso, da un notaio di Roma, che sentendo il mio evidente ed imperdibile accento, mi chiese se avevo letto La concessione del telefono e lì a raccontare e a ridere, lodi, e incitazioni a leggere il libro. Cosa che feci una volta finiti gli impicci notarili.
Era il 1998. Comprai il libro e lo lessi. Mi piacque. Molto. L’approccio, la forma, la dialettica; il rimpallo. La lingua è poi l’elasticità che serve a quel rimpallo – ora è mia ora è tua – un ping pong esistenziale antico e reso moderno, attuale, comprensibile da una delle più belle teste della nostra contemporaneità. Orgogliosamente rivendico la mia sicilianità che mi ha permesso di leggere il mondo e capirne qualcosa attraverso Camilleri, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Pirandello, Verga, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo. Non sono i soli padri che ho avuto, ma quelli che mi hanno aiutato di più nel mio cammino, gli hanno dato luce; e a me dolcezze, amore e capacità di sognare, di saper tornare indietro per andare più spedito e lontano.
Camilleri mi è stato cugino, fratello cugino, più grande, più esperto, che sapeva un sacco di cose e sapeva come impararle e dove trovarle, che leggeva le carte e sapeva farcirle della storia che mancava, dal senso oscuro di pochi dettagli traeva chiarezza e insegnamento.Questo è stato – è – Andrea Camilleri per me. E tanto altro, di cui altri hanno scritto magnificamente e fatto conoscere.
Montalbano e Tiresia mischiati insieme e lanciati verso una gigantesca elica ché la polvere minutissima si infili dovunque e nidifichi.

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