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Scritti di politica e di umanità (3). Ripresi dalla stampa

a cura della Redazione
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Da la Repubblica di ieri 27 giugno 2019

COMMENTI
Quanto male ci fa quella foto
Il padre e la figlia annegati sul confine Messico–Usa

di Concita De Gregorio

Mettersi nei panni, si dice. Fermate un momento la coazione al giudizio — chi ha ragione chi ha torto, metti like, scrivi un post, vota — e provate a immaginare cosa fareste voi nei panni — negli abiti, nelle scarpe, nella vita di un altro. Cosa fareste proprio in questo momento, e cosa vi potrebbe indurre a farlo. Per esempio: cosa vi potrebbe spingere a lasciare ora, proprio in questo istante, il luogo dove siete (dove vivete forse con la vostra famiglia, dove certo avete se non una casa almeno un letto dove dormire la sera) per entrare in acqua, vestiti, e sperare di approdare sull’altra sponda senza nient’altro che i vostri abiti fradici.

In un luogo dove non vi vogliono, dove se vi trovano vi arrestano. Un posto dove non sapete dove nascondervi la notte, stanotte. Davvero. Che motivo, quale calcolo o furba convenienza potrebbe spingervi a buttarvi in acqua? Ora: uscite da casa, andate sulla riva del mare, del fiume, ed entrate, coi pantaloni e con le scarpe, con vostra figlia in braccio. Pensateci. Per quale motivo lo fareste, perché?

Mettersi nei panni, pensavo, si dice. C’è questa foto che il mondo intero guarda. Si incidono nella retina due fuochi: la maglia del padre, dentro la quale l’uomo ha infilato sua figlia. L’ha messa nei suoi panni, l’ha incorporata a sé. Come fosse un salvagente, lui stesso: il salvafiglia. Subito dopo, o insieme: il braccio della bambina attorno al collo del padre.

Lei si è fidata, ci ha creduto. Quale figlia non crede che suo padre sappia ogni cosa, che sappia portarla in salvo. Dentro la maglia, nei suoi panni, ha abbracciato il padre fino all’ultimo respiro.

Ho letto la storia che Julia Le Duc, la fotografa e giornalista che ha scattato la foto, ha scritto per il Guardian. Le Duc è messicana. Ha ascoltato la madre della bambina, che aveva poco più di due anni e si chiamava Angie, Angela. Ha raccontato la donna: lei suo marito Oscar e la loro figlia Angie sono di El Salvador. Erano in Messico già da qualche tempo, in attesa di un visto per passare negli Stati Uniti. In un luogo chiamato Matamoros, che significa letteralmente: uccidi-neri. 1800 persone in coda, dicono le cronache, ogni giorno. Quel giorno era domenica — l’ufficio era chiuso.
Hanno deciso di tornare indietro, a casa. Ma Oscar, il padre, quando sono arrivati sulla riva del Rio Grande ha preso la sua decisione: andiamo. Ha preso la figlia, a nuoto l’ha portata sulla riva americana. Poi è tornato indietro a prendere la moglie. Ma la bambina non voleva restare sola, ha avuto paura. Si è buttata dietro al padre. Oscar è andato a riprenderla, l’ha infilata nella maglia. I bambini quando hanno paura sono in pericolo, sono un pericolo. E’ stato allora che la corrente li ha portati via. La madre li ha seguiti finché ha potuto, poi li ha persi di vista. Li hanno ritrovati riversi nel fango. Angie si è messa nei panni di suo padre.

Proviamo per un attimo a farlo tutti. Servisse anche solo a scegliere le parole da usare, sarebbe qualcosa.

Le parole. C’è questo tema dell’abisso che separa la Cosa dalle parole che chi comanda nel mondo — chi ha dunque la responsabilità, anche, di dire per tutti la parola appropriata — usa per indicare la Cosa. Donald Trump ha detto: “Stiamo mettendo le cose a posto, compresa la costruzione del muro”. È spaventosa, sarebbe imbarazzante se non fosse tragica, la convinzione di chi pensa che un muro, una barriera, un porto chiuso un divieto possano convincere Oscar e i milioni di persone che si buttano in acqua rischiando di morire coi propri figli in braccio, morendo con loro, a non farlo. Non sono capaci, i governanti, di indovinare la disperazione, di immaginare l’abisso. Non provano nemmeno un istante a mettersi nei panni.

Valeria Luiselli ha scritto un libro bellissimo, “Quaranta domande”.
È messicana, come Julia Le Duc. Ha ascoltato i bambini al confine, li ha aiutati a compilare i questionari. I bambini hanno paura a rispondere, anche Angie aveva paura a rimanere a riva da sola.

Il nostro piccolo Trump parla di Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3, come di una “sbruffoncella”. Una che “fa politica non si sa pagata da chi”. Dietro ogni sospetto c’è una cattiva intenzione. Attribuiamo sempre agli altri i nostri modi, le nostre abitudini: suona quasi come una confessione, questa frase, Matteo Salvini dovrebbe stare più attento. “Nessuno può pensare di farsi i suoi porci comodi”, avvisa riferito alle 42 persone che per due settimane sono rimaste a friggere sotto il sole, sul ponte della nave, e chissà quali intenzioni, quali pensieri, quali porci comodi stavano cullando. Ad Agrigento i pescatori tirano a riva corpi insieme ai pesci. Porci comodi inabissati in mare.

Che poi l’acqua, sempre, è il più permeabile dei confini.

Sembra facile. Più facile del muro e del filo spinato. Il mare, un fiume. Il più permeabile e pericoloso che esista, fra i varchi. Pericoloso proprio perché così accogliente, una sirena. Provate a pensare, un momento, mentre Facebook si infiamma di anatemi scritti da casa. Provate a uscire — immaginate di farlo — andare in riva al mare, nuotare vestiti o salire su una barca che vi porta forse in un’altra terra, forse a morire. Ci andreste, stamani, stanotte, a nuoto, altrove? Vi mettereste vostra figlia nella maglia, se ha due anni e non sa nuotare? E cosa potrebbe indurvi a farlo, furbetti che non siete altro? Facile, eh? Provare a fottere le nostre leggi. I porti sono chiusi. Pensavate di fregarci? E invece guarda: siamo noi che freghiamo voi. Che soddisfazione. Applausi.

Speriamo solo che nessuno dei Trump grandi e piccoli, al mondo, abbia mai bisogno di una mano che si tende, a mare. Speriamo che mettersi nei panni anziché esserci davvero, provare a immaginare, sia ancora un esercizio praticabile.

La maglia di Oscar, quella. Angie, la bambina col braccio attorno al collo di suo padre. Lì siete voi, nella corrente del fiume, con le scarpe che pesano, adesso. Lì siamo tutti, se chiudiamo gli occhi: al centro di questo tempo.