Ambiente e Natura

Torresi alla conquista del Mediterraneo (seconda parte)

segnalato da Biagio Vitiello

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Per la prima parte con l’introduzione, leggi qui

Torresi alla conquista del Mediterraneo (seconda parte)
di Giuseppe Di Donna

Alla fine del ’700 arrivarono a Civitavecchia da Torre del Greco quasi 100 paranze. con almeno cinque uomini a bordo. che avevano già visitato i mari di Cuma e Mondragone. Altre barche portavano poi, ogni notte. il loro pescato a Napoli. La pesca dei pesci era praticata nei mari pontifici (Lazio, Toscana. Romagna) e il granduca di Toscana. per l’amicizia con i Borbone, l’accordava per un lungo periodo. I marinai torresi erano richiesti per la loro bravura a formare equipaggi di pescherecci dello stato pontificio dopo il rilascio del passaporto borbonico, perché Torre con la tradizionale attività di pesca del corallo e del pesce, era ritenuta ai primi posti per la valentia dei suoi uomini di mare. Tuttavia, alcuni marinai ne approfittavano per disertare l’esercito borbonico, vivendo in capanne lungo le spiagge del litorale laziale, come riportato da Gregorovius.
La frequentazione della costa laziale diede origine ad una piccola colonia di pescatori nella Terracina Bassa alla fine del ‘700, i cui abitanti, provenienti da Torre e dintorni, venivano chiamati i marinari o i “basciammare”. Occuparono alcune casette del porto.
Così pure per volere di Innocenzo XII nacque un nuovo porto ad Anzio. Sperava venisse abitato dai vicini nettunesi, ma visto che questi erano poco dediti alla pesca, il papa ricorse a nuovi immigrati che provenivano in gran parte da Torre chiamati poi portodanzesi. Ad Anzio il mare era ricco di pesce ed aragoste. I pescatori passavano qui vari mesi dell’anno dormendo sulle loro barche.

F. Gregorovius (*) definì i marinai napoletani come i primi pescatori al mondo, forse intendendo dire i torresi perché in “Passeggiate per l’Italia” del 1856 di seguito scrive che “se ne incontrano anche nelle isole spagnole e sulle coste d’Africa dove pescano il corallo: e così le loro barche variopinte solcano in ogni direzione questo mare”.
Agli occhi di Gregorovius la spiaggia di Anzio con pescatori di Torre del Greco. Pozzuoli e Baia è una scena pulsante di vita e al suo sguardo risaltano la vivacità dei loro gesti. la loro mimica, il loro dialetto, i loro costumi e tutto ciò appare sempre più bello ogni volta che lo scrittore la rivede. Egli non si stanca mai di osservarli sebbene sia consapevole che la scena è romantica ma solo per l’osservatore non per l’oggetto osservato. La vita di questi uomini di mare, aggiunge, è dura, faticosa sulle loro “barche illuminate che ora si vedono, ora scompaiono sulle onde del mare”.
Gregorovius descrisse con minuziosa particolarità i pesci portati a riva: bellissimi rombi, grossi palombi. variopinte murene, sogliole dalle pinne pungenti, triglie luccicanti, sardine. e merluzzi in gran quantità e poi due squali lunghi 10 piedi, circa 3 metri, presi all’amo, dalla carne dura ma edibile, il vestiario dei pescatori, mezzi nudi, con i calzoni corti di tela, in maniche di camicia, con su il berretto rosso in testa. Continuò il Nostro con la descrizione dell’indole del tipico pescatore campano ad Anzio: è snello, vivace, ciarliero ed è sempre pronto allo scherzo, al motto, al canto e al ballo, non triste come il pescatore baltico (dalla Real fabbrica di Capodimonte, in un piatto decorato del ‘700, si vede un pescatore torrese con il vestiario da riposo e con il berretto frigio mentre fuma da una lunga pipa da tabacco e chiacchiera amorevolmente con una donna). Ma i torresi, come altri pescatori di pesce della provincia di Napoli, familiarizzarono non solo con le coste laziali ma anche con quelle toscane, spinti dai corallari torresi. Livorno fu dimora di numerosi concittadini perché centro commerciale per il corallo e nuova residenza per altri dopo il fallimento che fece seguito la scoperta dei banchi di Sciacca fra il 1875 e il 1880. Lì si stabilirono. non facendone più ritorno.
Nella città labronica arrivavano intere famiglie di pescatori di pesce da Torre, Procida e Pozzuoli, incoraggiati non solo dai divieti nei mesi estivi e dalla pescosità di quei mari ma anche dall’assenza di una marineria locale consolidata.
Si radicarono così nell’ambiente che certe pietanze marinaresche ritenute livornesi, come il caciucco, pare siano state colà portate da questi pescatori. In Toscana i pescatori torresi di corallo e pesce frequentavano le coste di Viareggio, Piombino, Porto S. Stefano. S. Ercole, Cecina, Orbetello, Monte Argentario. Essi durante il lungo e faticoso viaggio, a volte rimanendo sulle barche in mare tutta la notte, mangiavano pesce all’acqua pazza (secondo la tradizione pare che tale cibo sia stato ideato dai ponzesi) utilizzando l’acqua di mare, il cazzo anniato (**), pesce essiccato. legumi.

La superba maestria dell’arte della pesca in mare aperto permise a questa gente di vivere del proprio lavoro nelle nuove zone di residenza, tramandando i segreti del loro mestiere ai pescatori locali. A spingere i torresi per nuovi mari era l’audace spirito della gioventù (già a 12 anni si imbarcava) e a volte la povertà, che spesso era a seguito delle eruzioni.
La Toscana marittima e isolana fu colonizzata. oltre che dai torresi e viciniori, anche da ponzesi e puteolani.
Una colonia di corallari torresi è annotata da P. Loffredo a Cecina così come pure a Monte Argentario (Della Monica 1876). I pochi pescatori elbani incuriositi dall’abilità di questa nuova gente, venivano a Torre ad acquistare paranze o a Vada dove lavorarono maestri d’ascia torresi per insegnare agli indigeni tale arte. I pescatori torresi e non solo, iniziarono a frequentare maggiormente le coste toscane nel secolo XVIII quando le fortezze costiere (stato dei presidi) passarono al re di Napoli.
La maggior sicurezza contro le incursioni piratesche dovute alle fortificazioni favorirono l’immigrazione di pescatori di Procida, Torre e Pozzuoli che così da stagionali divennero stanziali. Inoltre l’espansione geografica delle gaetane con reti a strascico, che permettevano una pesca intensiva, fece emergere la presenza di grandi mercanti all’ingrosso, principali artefici delle costose campagne di pesca. Ciò favorì l’ingaggio di uomini di mare ed imbarcazioni di Torre del Greco. per la pesca nelle acque di Civitavecchia.
I pochi e poveri pescatori civitavecchiesi protestavano, in quanto i pescatori immigrati stravolgevano i fragili equilibri preesistenti. E’ documentato che un certo A. Guglielmotti, appaltatore di pesce a Roma, nel 1779 sottoscriveva un accordo con un gruppo di padroni torresi di paranzelle per pescare nelle acque laziali. Il pesce riposto in recipienti ricoperti di paglia e con pezzetti di ghiaccio veniva poi imballato per essere spedito nella notte con dei carri a Roma.

Le acque che bagnano Civitavecchia divennero cosi familiari che dopo l’eruzione del 1794 alcuni pescatori torresi si stabilirono li, assieme a puteolani e procidani, andando ad abitare al “ghetto”, un quartiere destinato agli ebrei, e fra loro comunicavano con una parlata detta poi “ghettarolo civitavecchiese” che si distingueva nettamente dal dialetto laziale.
La grande pesca si concentrava a Torre e Pozzuoli mentre avevano scarsa importanza la zona Amalfitana, Resina, Napoli e Castellammare.
I navigli di Torre arrivavano fino a 18 tonnellate, a Pozzuoli non oltre le 3t. Le paranze di Torre erano le più capaci e di maggior tonnellaggio e il numero delle nostre imbarcazioni superava tutte quelle dei casali di Napoli, Salerno e quelle di Gaeta.

Nel 1727 fra quelle per la pesca del corallo e del pesce se ne contavano più di mille con 4.000 marinai. Torre e Gaeta facevano da padroni nel Tirreno.
I Gaetani e Torresi avevano introdotto un tipo di pesca intensivo con l’uso di paranze e attrezzi da traino. I nostri al ritorno delle campagne coralline adattavano i loro trabbacoli per la pesca dei pesci, cosiddetti “franzesi”, cioé costieri, procurando grossi danni ai piccoli pescatori che utilizzavano mezzi più tradizionali. questi incominciarono a protestare presso il Re. Ad esempio nel 1775 i pescatori procidani, si lamentavano dei danni cagionati dai pescatori torresi per l’uso di certe imbarcazioni. Pertanto nel 1784 furono fissate norme per i tempi della pesca e gli strumenti da utilizzare con limitazione per quelle a strascico introdotte dai gaetani.
In seguito Murat, nel 1809 revocò tutti gli ordini proibitivi relativi alla pesca con lo scopo di favorire la concorrenza.
Tuttavia, chi la fa l’aspetti. I pescatori di Gaeta nel 1852, parlando a nome di altri, tornarono a lamentarsi presso il re dello stato in cui versava il mare e chiesero la proibizione della pesca con paranzelle torresi, procidane e baresi per tornare all’uso delle tartane. Ma gli stessi baresi e procidani che praticavano questo tipo di pesca si lagnavano dei danni continui che i pescatori della Torre del Greco cagionavano nel mare di Procida con le loro paranze con reti a strascico e chiesero la loro abolizione. Già allora si intuiva come certe imbarcazioni e il mancato rispetto dei limiti stagionali potessero essere dannosi per gli ecosistemi.
La “guerra” fra pescatori di diversi paesi, con continue e reciproche accuse, era continua.
Nel 1824, oltre alle numerosissime feluche di corallo, partirono da Torre una trentina circa fra paranzelli, feluche e gozzi per la pesca ittica e 12 paranzelle e 1 feluca per il traffico commerciale che vedeva anche in questo campo i torresi egemoni nelle acque tirreniche (ferragli, verderame, concimi. minerali, reti, graniglia, zolfo, pozzolana. zucchero, gallette, sale) nelle tratte fra Sicilia e Francia (Cette, Agda, Marsiglia, Tolosa) o Spagna (Valencia, Alicante).
Nel 1834 furono ristabilite norme più restrittive. Ma forse poco servirono in quanto nel 1877 i pescatori termitani (Termini Imerese) si trovarono a fare i conti nel proprio mare con le paranze torresi che si spingevano fino a Cefalù e anche oltre, nei mari nord africani.

Da: “La tófa” n° 281 del 30 settembre 2018

File .pdf dell’articolo: Torresi alla conquista del Mediterraneo.2

Note (a cura della Redazione)

(*) – Ferdinand Gregorovius (1821 – 1891) è stato uno storico e medievista tedesco famoso per i suoi studi sulla Roma medievale.
È anche molto noto per i suoi Wanderjahre in Italien (Pellegrinaggi in Italia), i resoconti dei suoi viaggi in Italia tra il 1856–1877, in cinque volumi in cui descrive località, curiosità e personaggi d’Italia (sintesi da Wikipedia).

(**) – Cazzanniáto. Non è una mala parola né ‘u cazz’ marine, ma ma un piatto (diciamo così) della gastronomia antica torrese.
Lo mangiavano i marinai delle coralline, nelle lunghe giornate di pesca, senza soste. Il poeta torrese Edgardo Di Donna lo racconta con questi versi:
Iammo ’nnanze a ggallette
fatte a “cazzo anniato”
e ’na zuppa ’e fasule
sulo doppo piscato.
Riprenderemo l’argomento in Commenti (la Redazione)

[Torresi alla conquista del Mediterraneo (2) – Continua]

2 Comments

2 Comments

  1. Mimma Califano

    4 Maggio 2019 at 21:36

    Molto interessanti questi articoli sulla marineria torrese.
    Da parte degli storici e di quelli che ne hanno scritto, queste notizie sarebbero da confrontare ed integrare con la storia della marineria ponzese.
    Riguardo al cibo dei marinai – le famose gallette – vorrei ricordare che erano rigorosamente senza sale; di qui l’uso di bagnarle in acqua di mare prima dell’utilizzo.
    E sul termine “anniato”: lo usava anche mio padre Giuantonio, per indicare una rete, del materiale per la pesca (nel loro insieme si chiamavano “i mestieri”), tenuti male. Diceva: “Chella rete è anniata”: conservata male, con sciatteria. Quindi coincide con il significato riportato nell’articolo e il termine si usava anche a Ponza

  2. Rita Bosso

    5 Maggio 2019 at 18:31

    Condivido il giudizio di Mimma Califano: i due articoli sono densi di informazioni e molto interessanti. A mio avviso è utile integrarne la lettura con gli studi di Agostino Di Lustro sulla marineria ischitana (consultabili sul sito de La Rassegna d’Ischia).
    L’autore usa ripetutamente il termine “colonizzazione” intendendo azioni di ripopolamento e di fondazione di colonie; il termine “colonizzazione” è però usato dagli storici in tutt’altra accezione.

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