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Perché apprezzo “la Repubblica”. Tre scritti

segnalati da Sandro Russo
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Qualche anno fa, con una certa sorpresa, scoprii che c’era un sito web di “feticisti di Repubblica”, tra il serio e l’ironico goliardico. Per chi è curioso, le informazioni di base si trovano qui: http://pazzoperrepubblica.blogspot.com/ [2]; raccoglie con precisione maniacale notizie, curiosità, refusi ed errori del “quotidiano più amato dagli italiani”.

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Ci ho interagito qualche volta via mail; sono simpatici e apprezzati dagli stessi giornalisti di Repubblica, che qualche volta interagiscono con loro direttamente.

Io non mi porrei nella categoria “feticisti”, ma lettore assiduo sì, in grado di apprezzare la scrittura giornalistica (e la scrittura tout court) di molti che lavorano al giornale; tanto che su queste pagine di Ponzaracconta ho riportato qualche volta i loro articoli.
Come stavolta.
Sul giornale di ieri, 2 aprile, ci sono almeno tre articoli notevoli, per acume e capacità di imprimersi. Rispettivamente di Michele Serra, Corrado Augias e Concita De Gregorio.

Li riporto integralmente qui di seguito perché credo possano interessare anche i nostri lettori che non seguono abitualmente quel giornale. I commenti sono graditi.

Rubrica “L’amaca” di Michele Serra , del 2/4/2019
Una lotta intestina 

Ecco il classico caso di scuola. A Verona un ragazzo, con pitbull d’ordinanza, inneggia per la strada al “capitano” Salvini, schiamazza e fa il saluto romano. Viene richiamato da una poliziotta. Lui si cala i pantaloni, le mostra le chiappe (non memorabili, a un sommario colpo d’occhio), la insulta pesantemente, la affronta fisicamente urlandole in faccia da pochi centimetri. La poliziotta lo tiene a distanza con una garbata spintarella. Lui dà in escandescenze. Amici pietosi lo portano via, insieme al pitbull che, va detto, pareva persona educata. A parte l’apologia del fascismo, che ormai conta meno del divieto di sosta, siamo in conclamato oltraggio a pubblico ufficiale.
Non so se esista l’aggravante della cafonaggine, non sono un giurista. Ma nel caso in questione l’applicherei a prescindere.
In sintesi: una dipendente del ministero dell’Interno viene insultata in pubblico da un fan del ministro dell’Interno.
Capita infatti che l’idolo indiscusso della destra estrema e urlatrice sia, al tempo stesso, uomo delle istituzioni e ministro di polizia. La scenetta veronese è dunque Salvini contro Salvini, una specie di implacabile raffigurazione schizofrenica che costringe, almeno in teoria, il Salvini a decidere da quale parte (di se stesso) preferisce stare.
Risulta che il ministro dell’Interno abbia telefonato alla poliziotta. Chissà se nel frattempo il Capitano ha telefonato al suo fan energumeno per chiedergli se, per cortesia, può darsi una calmata. E chissà quale dei due Salvini agisce a sua insaputa.


Le lettere a Corrado Augias
Il fascismo e quelle storie da conoscere

Caro Augias, vorrei raccontare la storia di mio zio Bepi Marin, mentre la parola fascismo torna a riempire i giornali. La famiglia di mia madre, Ida Marin di Cornuda (Treviso) era composta da padre, madre e dodici figli, mia madre era la decima. Erano andati profughi a Cittadella e lì rimasero; i figli maggiori erano in guerra ma per fortuna tornarono sani e salvi. La loro casa però non esisteva più.
Ebbero una grande baracca di legno, e lì rimasero fin quando poterono. Uno dei fratelli della mamma si chiamava Giuseppe, Bepi: trovò lavoro nell’edilizia. Era socialista come tutta la famiglia. In quegli anni difficili, con la crisi e l’avvento del fascismo, ci furono i primi scioperi. Lo zio Bepi scioperò anche lui. Un giorno i fascisti lo presero, lo portarono in piazza a Cornuda, gli fecero bere una bottiglia di olio di ricino. Lo fecero girare attorno alla fontana prendendolo a calci al grido di « Balla orso! » , mentre si riempiva i pantaloni dei suoi escrementi. Riparò in Francia e trovò lavoro ma le botte prese, forse la nostalgia, lo finirono ben presto. Di lui c’era una foto scattata assieme a fratelli e sorelle.
Ha un bel volto sereno e il cappello sulle ventitré. Altro della sua breve vita non c’è.
Quanti altri Bepi Marin ci furono in quegli anni?

— Licia Gallo Bona — Feltre ( BL)

Risposta di Augias
Alla domanda è difficile rispondere. Però a quello del muratore Bepi Marin, si possono affiancare un paio di altri profili – tra i tanti. Diversi e simili. Il primo è Piero Gobetti, nato nel giugno 1901, famiglia di contadini inurbati che gestivano una drogheria, se fosse stato un ragazzo come tanti la sua vita sarebbe passata lì. Invece a diciassette anni pubblica la prima rivista, Energie nuove, si sente vicino alle esperienze di Gramsci con un interesse ricambiato. Si fa editore, scopre per primo Eugenio Montale e lo pubblica. Quando arriva il fascismo ne intuisce il pericolo, lui che coltiva l’ideale di una socialità libertaria. Una sera un gruppetto di energumeni lo assale picchiandolo a sangue. È un giovane di 25 anni, gracile, miope, non ci vuole molto. Va in Francia, poco dopo muore per le conseguenze di quelle botte. È sepolto al Père Lachaise. A nemmeno vent’anni aveva scritto: «Bisogna amare l’Italia con orgoglio di europei, con l’austera passione dell’esule in patria». Vicini e lontani, innamorati ma lucidi, un patriottismo filtrato dal giudizio.
Anche l’altro è un editore, Angelo Fortunato Formìggini, nato vicino Modena da una famiglia ebraica, gioiellieri al tempo degli Estensi. La seconda laurea fu in Filosofia morale con la tesi Filosofia del ridere. La sua idea era che l’umorismo è la massima manifestazione del pensiero filosofico. Aprirà una collana dedicata ai classici del ridere: Boccaccio, Petronio, Rabelais… Volumetti curatissimi, preziosi, oggi introvabili. Ebbe per primo l’idea di una enciclopedia italiana ma il ministro Gentile, diffidente verso il suo positivismo, l’affidò a Giovanni Treccani. Volontario nel 1915, apprezzò, al contrario di Gobetti, la figura di Mussolini, salvo scoprire, nel 1938, di non essere più italiano.
Da Roma tornò a Modena salì in cima alla torre della Ghirlandina e si gettò di sotto. Achille Starace segretario del partito fascista commentò da par suo: «Un vero ebreo, s’è buttato di sotto per risparmiare un colpo di pistola».
Bisognerebbe saperle certe cose, forse aiuterebbe.

 

Rubrica “Invece Concita” – Lettere a Concita De Gregorio
“La famiglia è compagnia”

Grazie a Paolo Saracino, 18 anni, e a suo fratello Mattia

Ho ricevuto molte lettere sul tema di cosa sia una famiglia, in questi giorni. Con mia sorpresa hanno scritto soprattutto persone giovanissime. Dico sorpresa perché non si pensa mai ai ragazzi come lettori attivi dei quotidiani, si dice di solito anzi il contrario: e invece. Questo è Paolo.

«Mi chiamo Paolo, sono uno studente di 18 anni, frequento il V liceo. Sto iniziando a leggere giornali, a seguire i telegiornali non perché abbia aspirazioni politiche ma per curiosità, informazione, per iniziare a conoscere il mondo oltre le frontiere del mio paesino. Perciò tra i vari argomenti, uno che ho seguito è stato il congresso per la famiglia (o contro) a Verona.
Oggi, camminando in sala noto mio fratello Mattia di sette anni che sta scrivendo su una lavagnina giocattolo. Pensavo stesse disegnando qualcosa. Dieci minuti dopo mi accorgo che era alle prese con il suo “saggio” sulla famiglia, la nostra.
Trascrivo qui, errori compresi:
“La famiglia è la cosa più importantissima di tutto. Quindi a che serve la famiglia io lo so. Serve la compania. La compania pure voi. I vecchi sono certi da soli quindi avete capito che serve la famiglia, io celò. Vi dico tutti i nomi della mia famiglia: Emanuele, Papà, Mamma e Paolo questa gente fa quello che vuole».
Ciò che un bambino dice nasce dalla sua esperienza di vita quotidiana. Lui è mio fratello, ma i nostri papà sono diversi. Mia mamma ha divorziato anni fa, e poco dopo ha costruito una nuova famiglia, stupenda, unita.
Nonostante ciò, io e l’altro mio fratello, Emanuele, continuiamo a vedere regolarmente nostro padre. Questa è una dimostrazione tangibile, per tutti coloro i quali sostengono le famiglie tradizionali e la loro superiorità morale, che non è così. Mattia ha dimostrato con semplicità e sensibilità ciò che tra noi traspare; lui la chiama “compagnia”. Siamo una famiglia, e lui ci ama incondizionatamente, senza sapere il nostro orientamento politico o sessuale, cosa facciamo quando non siamo con lui; non gli importa che mio padre sia diverso dal suo, lo sa benissimo e non ci vede nulla di male.
Poi conclude con: “Ognuno fa quello che vuole”. Questo inciso, abbastanza ambiguo, rimanda al fatto che, nonostante l’educazione rigida e intransigente di nostra madre, lei non ci ha mai negato di scegliere chi essere, cosa voler fare nella nostra vita, di voler bene a qualsiasi persona; ci ha insegnato a fare di noi il soggetto della nostra vita, e non l’oggetto di quella degli altri. Mattia lo ha già capito. Dovremmo imparare a pensare come loro, vivere come loro, fare in modo che la nostra anima infantile, se è ancora in noi, non si allontani e ci guidi verso un futuro migliore, o per lo meno felice».

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Era una notte buia e tempestosa… La buona scrittura è un lavoro duro!