Ambiente e Natura

Il mondo di Fra’ Diavolo (2). La festa di fidanzamento e il matrimonio del re

di Pasquale Scarpati

Continuazione dalla puntata precedente (leggi qui)

…Quindi proseguì per Itri che si stendeva lungo la via Appia.

Il Borgo era circondato da mura. Ad esso si accedeva dalla parte di Fondi attraverso la porta di S. Spirito e si usciva dal lato opposto da quella di S. Gennaro. Il Borgo si arroccava da una parte intorno all’antico maniero, dall’altra seguiva il torrente Pontone. Attraversando il Borgo si giungeva al quartiere moderno e pianeggiante la cui strada era “lastricata di brecce per la lunghezza di circa mezzo miglio ed era fiancheggiata dai migliori palazzi cittadini”. Al centro del Borgo vi era la piazza dove la coppia reale ricevette l’omaggio del Governatore e di tutta la numerosa (2600 abitanti) “Università”.

Questa “Università” non solo era abbastanza attiva ed operosa (vi erano: oltre ad un notaio, due giudici, due fisici, alcuni professori di legge ed inoltre anche… 4 barbieri di cui uno era… “ cerusico”) ma contava anche ben 54 sacerdoti – …quanti priévete! – sottoposti al vescovo di Gaeta (non ancora arcivescovo).
Numerosi erano i frantoi: se ne contavano più di cento – chill’’uoglie era speciale! E po’ scenneva comm’e’ll’acqua d’a funtana .
Pertanto si può dire che la condizione economica era generalmente buona grazie alla laboriosità degli abitanti e alla felice integrazione dell’agricoltura, dell’allevamento del bestiame, dell’artigianato locale e dei vari servizi offerti dalla cittadinanza.

Un antico sentiero – ’na via stretta – portava ’ncoppa a monte Fusco sulla cui sommità era (ed è) situato il venerato santuario della Madonna (s’intende la Madonna della Civita) – ’U quadr’ d’a Madonna pare che l’ha pittate addirittura San Luca!
Non esisteva ancora la strada “Civita –Farnese” che da Itri porta a Ceprano.
Questa strada sarà fatta costruire in due anni dal nipote Ferdinando (II): ’i che lentezza! E quantu tempo c’è vulute!? Me par Quanto tempo c’è voluto! i sta ind’u sècul’ tuoie!

Da ogni parte sovrastavano i monti Volsci (gli attuali monti Aurunci) dove, oltre ai pascoli, vi erano le “nevare”. Pozze dove in inverno si conservava la neve che poi, d’estate, veniva trasportata con i muli nei paesi vicini ed era utilizzata per conservare i cibi.

Ricevuto l’omaggio, il corteo proseguì il viaggio per l’Alta Terra di Lavoro tra colline coltivate soprattutto ad olivo, fino a raggiungere l’antico monumento a forma di tronco di cono chiamato “tomba di Cicerone” perché in quelle vicinanze il grande oratore e politico Romano fu decapitato dai sicari di Antonio e si pensava che il corpo troncato (la testa fu portata a Roma) sia stato sepolto lì; ma più probabilmente iss’ (il grade oratore)) fu sepolto a poca distanza, alle pendici della collina dove in precedenza era stata sepolta l’amata figlia Tulliola (la località prende nome di Acervara: acerba ara: altare crudele). – Almen’ iss’ se putette arrepusà vicine a’ figlia soia!

I giovani Sovrani, invece di dirigersi a Gaeta, come aveva fatto re Carlo, preferirono proseguire per il territorio di Mola di Gaeta, dove parteciparono al sontuosissimo banchetto: – pecché tenevano fretta ’i se i’ a cucca’ – nel maestoso, nuovissimo e bellissimo palazzo fatto costruire a Caserta da ’u tate suie, re Carlo.

La grandiosa villa del principe di Caposele e tutte le altre ville erano addobbate a festa. Dopo la benedizione di S. E. mons. Gennaro Carmigniani, vescovo di Gaeta, si misero tutti a pranzo. Pranzo a base di specialità locali: mazzancolle, frutti di mare, pesce della migliore qualità e araustelle provenienti dalle Isole: addò già ce steve cocchedune d’a gente toia (i tuoi antenati – NdR) che già avevene mise mane a taglia’, a zappa’e a fa’ parracine’ ’nfaccia i Prunell’ oppure ’nfaccia ’u Ciglio, oppure dint’ Frunton’… e pure ’nu poche dint’ ’a pezza (a Santa Maria – NdR), addo’ ce steve parecchia acqua.

– Nunn’u saccie si a pranzo ce stevene pure i felluneCerte che ammiezz’a tutta chella bella gente, ’i chist’ animale dopp’ ce ne stettene paricchie – Qui scoppiò in una larga risata.
Rimasi interdetto: non riuscivo a capire.
– ’U rinfresc’ fuie veramente frische pecchè le nevare erano vicine.
– Spuzzuliaiene pure quatt’auliv’i Gaeta, ’nu poch’i furmaggie ’i Maranola (i marzelline) e ’na’ signora, a uocchie a uocchie, mettett’ ’ncoppa’a tavula pure ’nu poch’i virtù ’i Castellone (diversi legumi cotti tutti insieme – NdR)). Tutto condito cu’ l’uoglie nuost’… e ’u vin curreva comm’e ’nu’ fium’. E se senteve ’nu prufumme ’i pane frische… Aaah! (ingoiò a vuoto!).
Aho! – chiesi – ma tu comm’ faie a sape’ tutt’ chell’ che se mangiaiene?
– Cu’ ’a fantasia – rispose candidamente

Guardandosi intorno, la fanciulla Maria Carolina e ’a sora sgranavan’all’uocchie pecché nunn’avevene mai vist’ ’nu paesaggio accussì bell’…
Mare limpido, ’i mille colure, vele e varche a rimm’ che stevene tutt’attuorn’ alla villa, tutte parate a festa.

Da ’na parte (verso ovest) Piazzaforte che pareva s’adagiasse ’ncopp’u mar comm’e ’na tavula che galleggia, cu’ campanile, cu’ le case e gliu’ castieglie in alto, e ’a torre pareva ’a cimminiera’i ’nu viecchie vapore, che ce putive vedé gliu’ fumm’asci’
Tutti si specchiavano nel mare pecché facevano festa pur’alloro. Ma ca’ è semp’ ’na festa!

A nord i muntagne che p’a cuntantezz’ parevano scennere doce doce fin’a mmare; verso est, dall’ata parte, n’atu promontorio tutto verde.
E ancora muntagne, ’a luntane, che vann’ a pizzica’ ’u mare.

E dopp’ ancora, addo’ ’u mar’ separa a’ terr’, ancora n’ata muntagna, accussì auta che pareva sulitaria, pareva fosse sorta dal mare in quel momento: essa attirava all’uocch’ comm’i sirene attiravano i varcaiuole… ’A fusse stata semp’a guarda’!
Accà e alla’ strisce ’i rena ianca addo’ ’u sole’ riluceva…

’A Reggina sgranava’all’uocchie e pensava: – Marìteme è brutt’ ma ’stu Paese è tropp’ bell’! Nun parlamm’ quann’ dopp’ vedett’ ’u Vesuvio che fumava!
– Aber das raucht immer!? (ma chill’ sta semp’ a fuma’!?) – esclamava continuamente.

I vasti agrumeti t’addicriavene perché dappertutto si spandeva il profumo dei loro fiori o e le bocche di leone facevano festa sui vecchi muri dell’antico castello appoggiato sulle antichissime mura ciclopiche che pare fossero state costruire nientemeno che dai feroci Lestrigoni che distrussero tutte le navi di Ulisse lasciandone soltanto una.

Castellone arroccato nel castello guardava il corteo e tutta ’a ggente scenneva pe’ vede’.
Tutti si fermarono un attimo ad ammirare il convento dei carmelitani, di nuova costruzione, che si nascondeva in mezzo agli agrumi, poi proseguirono, in discesa, verso Mola di Gaeta .
La gente s’accalcava lungo la stretta via. Qualcuno usciva dal mulino tutto bianco di farina: – Chill’ erene n’ ianche p’u borotalco, chisti cca erene ianch’i farina – sorrise.
Poi la strada proseguiva per una campagna coltivata, attraversata da numerosi ruscelli e torrenti; appena fuori dal Borgo, sulla sinistra in alto, l’antica chiesa della Madonna di Ponza, benedicente”.

Castellone e Mola di Gaeta in quel tempo non avevano assunto ancora il nome di Formia né erano comune a se stante ma erano considerate ancora Terra di Gaeta.

Il primo di questi due borghi era ubicato su una collinetta dentro le antiche mura del castello voluto da Onorato dei Caetani. La maggior parte dei suoi abitanti si dedicava all’agricoltura. Solo una piccola parte che abitava fuori dalle mura, nei resti dell’antico teatro Romano chiamato gliu cancieglie, si dedicava alla pesca. Alla base della collina una stretta strada, ancora la via Appia, attraversava giardini con ricchi agrumeti fino a giungere a Mola di Gaeta che era l’altro borgo posto vicino al mare a ridosso della torre Angioina, abitato per lo più da pescatori.
Molte acque anche sorgive provenienti dai vicini monti calcarei scendevano verso il mare. Queste facevano sì che in tale zona vi fossero molti mulini dove tutto il circondario si recava a macinare i cereali (anche gli itrani). Il mare entrava nella costa e lambiva case e terreni.
Tra i due borghi scintillava, pressoché solitario, perché costruito da poco e ancora in fase di costruzione, il convento dei Carmelitani con la chiesa di Santa Teresa.
In alto, sulle colline, Maranola e Castellonorato dominavano il Golfo.
Così, verso il Garigliano, Traetto (attuale Minturno – NdR) e Castelforte erano al riparo dagli acquitrini e dalle paludi provocate dagli straripamenti del fiume.
La via Appia saliva fino a Sessa Aurunca e Cascano per poi ridiscendere verso la terra di Lavoro e Caserta.

Il mio interlocutore riprese:
Ovunque la coppia reale era accolta da festeggiamenti e manifestazioni di entusiasmo (inchini con cappello sul petto, cappelli in aria e archi di trionfo), sia perché i giovani suscitano da sempre entusiasmo perché si pensa che possano portare una ventata di freschezza, sia perché la popolazione era memore del re Carlo che più volte aveva mostrato una predilezione speciale per questi luoghi prima di partire per cingere la corona di Spagna.

Alle 5 del pomeriggio ripartirono da quei luoghi meravigliosi e, a tappe forzate cambiando continuamente i cavalli alle numerose poste che si trovavano lungo la via Appia, alle ore 11 di sera giunsero alla reggia di Caserta che era tutta illuminata. Stanchi per la lunghissima giornata, scossi dalle strade sterrate e dai continui sobbalzi delle carrozze (’u cul ’u tenevene a piezz’), pieni di polvere, cavalli, cavalieri e passeggieri passarono sul corpo una bella pezza umida attorniati da nugoli di servitori. Colà trascorsero la notte e vi rimasero alcuni giorni per sposarsi in chiesa, per riposare e per andare a piedi o a cavallo nel vastissimo parco, ammirando le numerose fontane e le cascate da cui sgorgava copiosissima acqua proveniente da Maddaloni attraverso un ardito acquedotto. Ma un ombroso laghetto appartato accoglieva gli amanti, evitava la confusione e li nascondeva perché con una barchetta si poteva raggiungere un isolotto posto al centro di esso. Nemmeno nell’austera Vienna, circondata e stretta tra alte mura, Maria Carolina aveva visto simili cose.
Ma, nel frattempo, qualcuno c’era rimasto male. Aspettava con ansia i giovani sovrani perché era quasi abituata alle visite reali: Gaeta o per meglio dire i “burghiciani”.

Gaeta era, al pari di Gibilterra, una fortezza ritenuta inespugnabile. Si arroccava intorno al promontorio di monte Orlando. Questo era ed è circondato da tre parti dal mare “mar di Terracina” ad ovest e “mar del Golfo” ad est (così si chiamavano).
Una sottile lingua di terra formata da dune sabbiose, la divideva dal piccolo Borgo di pescatori che si stendeva lungo la costa, dalla parte interna del Golfo.
Per le popolazioni del circondario, però, tutti gli abitanti di Gaeta erano i “burghiciani” per antonomasia. Una di queste collinette che si trovava davanti alla Piazzaforte a soli 300 metri sarà fatta spianare, in seguito, da re Ferdinando (II) onde evitare che gli assedianti avessero riparo (ma non servì a nulla perché durante l’assedio piemontese costoro si limitarono a “bombardare” da notevole distanza). Un fossato, inoltre, circondava la fortezza; soltanto una strada coperta e due ponti levatoi mettevano in comunicazione la Piazzaforte con il Borgo. Detto androne era chiamato“La Gran Sortita” perché solo da quella parte potevano uscire i difensori. Dalla parte di mare si poteva accedere soltanto attraverso due porte: la porta Carlo V fatta costruire appunto dall’imperatore Carlo V nel 1538 e la porta dell’Avanzata fatta costruire dal padre di Ferdinando: Carlo III di Borbone nel 1737.

Il paesaggio pertanto, quello subito a ridosso della fortezza e quello sul lato ovest si presentava bianco, abbacinante, senza alcuna alta vegetazione. Battuto, inoltre, dai venti freddi di tramontana detti anche “del Garigliano” prendeva il nome di “Montesecco” (Montesicc’, te muor’ de sicch’ – di freddo). Ma poco più oltre, i declivi delle colline circondanti la Piazzaforte si presentavano ricchi di vegetazione, soprattutto olivi (a Calegna, famm’, fumm’ e… legna).
In mezzo a questi “si nascondeva” il Convento dei Cappuccini, mentre qua e là dalla parte della Catena e su monte Lombone occhieggiavano anche alcuni frantoi. Buona parte di quegli alberi furono tagliati (ma non ripiantati) per costruire affusti e trincee nel corso dell’assedio piemontese del 1860/1861).
Forse è anche per questo che le olive di Itri prendevano il nome di olive di Gaeta (a questo punto il suo viso si rabbuiò alquanto)”.

Come la chioccia cova le uova e le protegge, così la “fedelissima” (l’appellativo le era stato dato dal re Carlo III, padre di re Ferdinando, il quale colà si era sposato effettivamente ed aveva trascorso la prima notte di nozze) proteggeva e rassicurava tutto il circondario da Sessa Aurunca a Fondi passando per Traetto (Minturno) e tutto il territorio circostante, Mola di Gaeta e Castellone (l’attuale Formia), Itri ed infine Spelunca (Sperlonga) e Fondi.

“Ma questo ‘onore’ comportò anche non poche ‘noie’.
In poco più di 50 anni dovette subire molti assedi. Il primo fu quello del 1799 che si concluse senza colpo ferire con la resa ai francesi da parte del maresciallo Tschudy (…uiccanne ’nu fellone), comandante della Piazza.
Il successivo, pochi mesi dopo, da parte delle truppe del Regno a cui partecipò anche Michele Pezza, detto Fra’ Diavolo.
Poi quello del 1806 da parte del generale francese Massena, quando il principe d’Assia, Philippsthal, resistette eroicamente; poi ancora quello del 1815 da parte degli austriaci ed infine quello del 1860/1861 da parte dei Piemontesi” (NdA).

Egli continuò…

[Il mondo di Fra’ Diavolo (2) – Continua]

Immagine di copertina. Panorama di Gaeta e Mola tratto dall’opera Curioses Staats-Kriegstheatrum in Italien pubblicata da Johan Stridbeck il Vecchio (1641-1716) e da suo figlio Johan Stridbeck Junior (1666-1714)

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