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La storia raccontata dai film (4). La fame nel cinema italiano (prima parte)

di Gianni Sarro

 

Spesso, proponendo argomenti relativamente estranei alla cultura isolana, mi trovo a doverli giustificare con citazioni e agganci vari. Per questa focalizzazione, presentata dal “Maestro di Cinema” Gianni Sarro – per gli altri suoi articoli utilizzare la ricerca per Autore: Sarro -, il richiamo è fin troppo evidente: LA FAME.
La parola sarà anche sconosciuta ai giovani, ma basta leggere alcune cronache di Ponza, sul sito, per richiamarla alla memoria:
Antonio Usai: https://www.ponzaracconta.it/2011/03/12/la-disperazione-dellinverno-44-a-ponza/
Antonello Feola: https://www.ponzaracconta.it/2011/03/13/ponza-al-tempo-della-fame/
Gino Usai: https://www.ponzaracconta.it/2011/04/18/l’autunno-del-’43
Rita Bosso: https://www.ponzaracconta.it/2012/11/13/tempo-di-fame-tempo-d-eroi/
Questo succedeva a Ponza, ma nel resto d’Italia non si stava meglio in quel periodo e nell’immediato dopoguerra. Come sempre il cinema ne è stato lo specchio fedele…
Sandro Russo

 

Il cinema nasce come arte di fascinazione, strumento creato per suscitare meraviglia. Nel breve volgere di pochi anni diventa un formidabile narratore di storie, capace, grazie all’illusione del movimento, di proiettare sullo schermo i sogni (non è certamente un caso che il cinema nasca pressappoco nello stesso periodo della psicanalisi freudiana) d’intere generazioni. Sono gli anni della stagione d’oro di Hollywood.

Dopo il disastro della seconda guerra mondiale però qualcosa cambia, la tragedia dell’ecatombe innescata dai nazifascisti ha interdetto la capacità di sognare, il pubblico è attonito, disorientato, questo cambiamento diventa terreno fertile per far nascere un nuovo cinema, il cui obiettivo non è quello di fornire risposte, bensì di porre delle domande, non offre soluzioni, lo spettatore è chiamato in causa, è costretto a diventare attivo. Culla del nuovo cinema è l’Italia, uno dei Paesi più devastati dalla guerra, e il nome di questo movimento cinematografico lo conosciamo tutti: il Neorealismo.

I film neorealisti sono storie di persone, non di personaggi, e una delle storie che ricorre più frequentemente nel cinema dell’immediato dopoguerra è l’esigenza primaria di mangiare: gli italiani hanno fame, tanta fame e il cibo diventa protagonista di tanti film (come vedremo anche quando la breve stagione del neorealismo sarà conclusa, il cinema italiana continuerà a mostrare il rapporto tra popolazione e cibo).

Abbiamo scelto cinque capolavori quali Roma città aperta, Ladri di biciclette, I soliti ignoti, Il sorpasso e C’eravamo tanto amati, dove il cibo è al centro di almeno una o più sequenze centrali della narrazione.

Roma città aperta è uno dei titoli più conosciuti della cinematografia italiana, uno dei simboli del Neorealismo, girato da Roberto Rossellini nel 1945, vincitore della Palma d’oro a Cannes l’anno successivo, narra gli ultimi mesi di Roma occupata dai nazisti. Protagonisti sono Aldo Fabrizi (in una delle più belle interpretazioni della sua carriera) e l’indimenticabile Anna Magnani. La macchina da presa segue (“pedina” si scriverà più tardi in molti saggi critici, ma questo è un altro discorso) personaggi che non sono eroi, ma persone comuni che hanno come obiettivo quello di sopravvivere alla barbarie tedesca.

La sequenza che ci interessa è quasi all’inizio del film, è la prima dove appare Anna Magnani. Nell’inquadratura iniziale della scena la macchina da presa ci mostra una folla composta in maggioranza di donne e bambini che rumoreggiano e cercano di entrare in negozio, è nella seconda inquadratura che però capiamo cosa sta accadendo, è un assalto in piena regola ad un panificio.
A rivelarcelo è lo scambio di battute tra due personaggi che nel corso del film ci diventeranno famigliari, Agostino il sagrestano di Don Pietro/Fabrizi e il poliziotto di quartiere. Nel corso del dialogo ad un certo punto Agostino chiede al poliziotto: “E voi che fate per evitare tutto questo?”, il poliziotto risponde sconsolato: “Io purtroppo sono in divisa”. Una battuta fulminante, che intende come in quei cupi mesi di occupazione a cavallo tra il ‘43 e il ‘44 a Roma anche chi indossava una divisa (non fascista, sottolineiamolo) era un povero diavolo che faticava a trovare il pane.

In questa sequenza (che ricorda l’assalto al forno narrato da Manzoni ne I promessi sposi) la macchina da presa adotta il punto di vista dei più deboli e disperati, ossia donne, bambini, i soli due soli uomini adulti presenti non sono rappresentanti della ferocia criminosa nazi-fascista, anzi il poliziotto lo vedremo poi alla fine della scena che aiuta Anna Magnani a portare la sporta con il pane appena rubato.

Nel 1948, tre anni dopo il capolavoro di Rossellini, esce un’altra pietra miliare del nostro cinema Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica, vincitore anche di un Oscar speciale l’anno successivo.

In questo caso i protagonisti sono attori non professionisti (De Sica rifiutò i soldi di una major americana che avrebbe voluto nel ruolo del protagonista Cary Grant). Una delle caratteristiche del film è che al problema iniziale (la mancanza di lavoro) si aggiunge il furto della bicicletta, mezzo necessario allo svolgimento del nuovi impiego, alla fine entrambi non vengono risolti. Assistiamo all’evolversi di una situazione, che non trova soluzione. De Sica mostra una Roma privata di ogni fascino, i luoghi dove vanno Antonio, l’adulto, e Bruno, il bambino, sembrano tappe di un calvario, come sottolineato anche dalla pioggia torrenziale che sorprende padre e figli quando sono nei pressi di Porta Portese (anche in Roma città aperta Rossellini mostra spazi urbani poco convenzionali, quali la periferia dei quartieri Prenestino e Tiburtino). La negazione di un riconoscimento forte della città mostrata si deve alla volontà di Vittorio De Sica di non connotare il film con luoghi ascrivibili solo a Roma, ma come specchio dell’intero Paese.

Nel loro girovagare per Roma alla ricerca della bicicletta che si protrae dall’alba (in un certo senso Ladri di biciclette è un road-movie) padre e figlio decidono di fermarsi in una trattoria. Appare subito evidente il cambiamento avvenuto in confronto a Roma città aperta, lì per procacciarsi un elemento di base come il pane, la folla doveva prendere d’assalto un panificio, invece nel film di De Sica un adulto e un bambino pur vivendo ai margini della povertà possono comunque decidere di andare in trattoria.
La sequenza inizia con la macchina da presa che attende i due protagonisti all’interno della trattoria, un locale modesto dove regna l’allegria (c’è anche un gruppo di suonatori ambulanti che suona una canzone napoletana), Antonio e Bruno prendono posto ad un tavolo e qui una battuta del primo “Adesso se ’mbriacamo” (tra le caratteristiche innovative del Neorealismo c’è quello di far parlare agli attori anche il dialetto) alla quale Bruno non replica verbalmente, ma opponendo uno sguardo di biasimo, ribadisce come il bambino sin dalla prima sequenza del film nella quale appare si dimostra più adulto del padre, uomo immaturo e patetico.

La scena della trattoria è movimenta dal gioco di sguardi che s’innesca tra Bruno e un altro bambino che sta pranzando in un tavolo accanto. Basta un’occhiata per capire che quel bambino è di famiglia agiata: per i vestiti che indossa, per come è pettinato, per l’uso adeguato delle posate. Viceversa Bruno indossa vestiti stazzonati e bagnati per la pioggia, è spettinato e le posate sono due nemici imbattibili, tanto che alla fine il piccolo mangia la mozzarella in carrozza con le mani.

Questa prima parte della sequenza ci narra di due nuclei famigliari appartenenti a ceti diversi, tuttavia entrambi seduti a mangiare in un locale pubblico. II pranzo è caratterizzato dai repentini cambi d’umore del genitore che rischiano in più di un’occasione di rovinare la gioia Bruno (in più di un’occasione il bambino ripone il cibo nel piatto, come se si sentisse in colpa) per quell’inatteso pasto in trattoria, che rimane un avvenimento eccezionale per buona parte degli italiani dell’immediato dopoguerra.
La chiusura della scena registra un cambiamento d’atmosfera, perché il fuoriprogramma, il pranzo, volge al termine e torna prepotente il problema di ritrovare la bicicletta, perché altrimenti come dice Antonio “Nun se magna”.

Pensando a quanto ci mostra Roma città aperta, in Ladri di biciclette registriamo un passo in avanti; nel dopoguerra per gli italiani la difficoltà non è tanto quella della disponibilità del cibo, quanto quella di avere i soldi per acquistarlo.

Nella prossima puntata riprenderemo a raccontare il rapporto tra il cibo e gli italiani con I soliti ignoti, troveremo un Paese alle soglie del boom, ma dove esistono ancora sacche di povertà che spingeranno un gruppo di improbabili ladri a rubare un… piatto di pasta e fagioli.

[La storia narrata dal cinema (4a). La fame nel cinema italiano – Continua]

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