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C’è tempo, di Walter Veltroni

la recensione di Tano Pirrone

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Abbiamo visto insieme il film di Veltroni Walter, al Savoy qualche giorno fa; ma Tano è più svelto di mano e di testa, così che è arrivato primo al traguardo di una recensione completa, in luogo delle mie impressioni frammentarie.
Il film è in questi giorni nelle sale

Sandro Russo

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Veltroni e il Cinema sono indissolubilmente legati. A lui si devono, fra l’altro, la Casa del Cinema (2004) e la Festa del Cinema (2006), che a Roma sono diventati due poli di attrazione importanti e “produttivi”. Questo legame affonda le radici nell’infanzia e nell’adolescenza e s’intreccia con la passione politica, l’impegno civile, la pratica saggistica e letteraria. Walter Veltroni dai buoni sentimenti non può, non sa prescindere, giustificando, in un certo senso, da parte di certa critica, l’etichetta di “buonista” (ostentatamente, cioè, e ostinatamente, propenso ai buoni sentimenti, alla tolleranza).

C’è tempo, il suo ultimo film, il primo di finzione, è dedicato alla fratellanza, cercata e voluta, di là dai legami di sangue, fra persone diverse per età, condizione civile, sesso e mestiere.
La storia è semplice: a Stefano, quarantenne “esperto di arcobaleni”, esule volontario in un paesino dell’Appennino, è imposto di occuparsi di un fratello di tredici anni (Giovanni), colto, ben educato, compos sui, di cui sconosceva l’esistenza. Accetta l’incarico per il guadagno che gliene verrebbe, ma durante un lungo viaggio – siamo in un road movie a tutti gli effetti – conoscono Simona, cantante jazz in tournée in Romagna e la figlia adolescente Francesca. Il viaggio continua fino a Parigi in uno slalom ininterrotto fra continue citazioni di film mitici e luoghi della nostra Bell’Italia, spesso legati alla storia del cinema: siamo accompagnati al “Cinema Fulgor”, restaurato e riaperto da poco, insostituibile fonte di ispirazione di Federico Fellini, per ritrovarci alla “Corte delle Piacentine”, in cui Bernardo Bertolucci girò scene memorabili di Novecento, e nell’affascinate ed evocativo “Labirinto della Masone” (che richiama Shining di Stanley Kubrick).
Il colpaccio Veltroni lo fa, quando nel finale, in un bistrot di Parigi Giovanni riconosce in un anziano signore seduto ad un tavolo poco distante Jean-Pierre Léaud, diventato famoso nei panni di Antoine Doinel il tredicenne protagonista de I quattrocento colpi di François Truffaut.

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La storia scorre facile, congruente e con momenti di allegria e spunti di riflessione. Luoghi, personaggi e vicende, che Walter Veltroni ha annodato col garbo naturale che lo distingue, costituiscono la parte migliore e godibile del film. Non molto convincente una parte dei dialoghi, troppo scritti, ed alcune scene che lo appesantiscono e la cui mancanza nulla avrebbe tolto, anzi.

Gli interpreti? Stefano Fresi (Romanzo Criminale, 2005; Noi e la Giulia, 2015; Smetto quando voglio, 2014), agitato, frizzante, calato nel personaggio di Stefano, che sembra costruito sulle caratteristiche dell’attore romano. Giovanni Fuoco (Giovanni), adolescente co-protagonista del documentario Indizi di felicità, nelle vesti dell’inaspettato fratello. Simona Molinari (Simona), cantante jazz scoperta da Veltroni, è bella, simpatica e brava. Francesca Zezza (Francesca), amorevole e brava quattordicenne, nella vita è una compagna di classe di Giovanni.

Qui il trailer del film da YouTube:

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