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La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (7). Il racconto del professore. Nel treno per Dachau Per la seconda, sdraiarsi, dato che sedersi sarebbe stato impossibile, mostrai come fare. Cominciando da Giuditta e Rachele. Ci saremmo disposti a embrice come le tegole di un tetto. Parzialmente sovrapposti uno sull’altro. Fu una manovra lenta, un gioco di incastri studiati ma alla fine riuscì. Non completamente, ma eravamo quasi tutti più o meno sdraiati e potevamo almeno riposare un poco, quel tanto sufficiente forse per non poter più pensare e sognare, sognare di essere liberi. Io preferii rimanere lucido e non appisolarmi. Quel tepore reciproco, dovuto alla ginnastica fatta prima di sdraiarsi e allo stretto contatto dei corpi ci confortava un poco, induceva a conservarlo il più a lungo possibile dormicchiando e consumando meno energie. In quel momento preferivo pensare. Il mio ragionamento fu compiuto a voce alta, e mi sentirono. Parole dure, crude, ma vere. Parole che fecero diventare adulti, anzi vecchi, quei pochi bambini in grado di capire. – Il nostro è un viaggio senza ritorno – dissi -, statene certi. Ci hanno separato per fiaccarci nell’animo e le famiglie sono state divise ad arte e non momentaneamente, ma per sempre. Non rivedremo più nessuno dei nostri cari. Saremo sterminati, lontano da occhi che possano testimoniare. Su vagoni anonimi, siamo trasportati come merce anonima di nessun valore apparente. Il nostro destino è segnato e non c’è nulla da poter fare. Soccomberanno prima i più deboli e gli altri, coloro che sopravvivranno a questi, si rammaricheranno di non aver avuto la fortuna di morire subito. Non è possibile, razionalmente parlando, ammassare tutta questa gente pensando di dare loro alloggio, vitto, coperte e quanto altro necessario per la loro sopravvivenza. E questo perché? Perché non ci sono i mezzi per questo, e non ho visto trasportare niente che lasci prevedere un tale trattamento. Ma soprattutto perché non c’è la volontà di farlo. Siamo destinati a sopravvivere quel tanto che il nostro organismo è in grado di fare, se non verremo uccisi prima, o a suicidarci, per non soffrire. Perché questo è sicuro. Soffriremo, molto. Nel corpo e nell’anima. Per noi e per quello che non potremo fare per coloro che amiamo e che ci sono ancora vicini”. Lasciai tutti alle proprie conclusioni. Nessuna reazione immediata. Pietrificati forse da quanto avevo detto. Alcuni ancora più convinti, perché era lo stesso che pensavano ma non avevano il coraggio di esternarlo. – “E se avessi qualcosa di questo genere cosa potresti farci?” – Erano le parole di quel vecchio che nella serie di movimenti fatti per poterci sdraiare era arrivato vicino a me, e accompagnò le sue parole porgendomi la lama di un seghetto da ferro. Quelli con due occhielli e che si sistemano in un archetto, tanto per capirci. Lo guardai sorpreso. Il legno fu attaccato velocemente e il seghetto faceva il suo dovere, lentamente ma lo faceva. I millimetri avanzavano, diventavano centimetri e l’asse fu tagliato da una parte. Attaccai dall’altra, a qualche decina di centimetri di distanza e anche questo fu tagliato. Il mio grido di trionfo fu subito smorzato. Una folata di aria fredda entrò dal foro che mostrò una solida rete metallica di rinforzo. Non erano vagoni anonimi per merce anonima come avevo pensato. Erano stati studiati apposta e realizzati per evitare qualunque evasione. – “Giuditta, amore mio, dobbiamo farlo, per lei, per Rachele. Forse è l’unica, la sola possibilità. Forse non ce la faremo mai. Ma lei… meglio la speranza, anche se fioca, di una salvezza, che la certezza di una morte sicura”. Guardai il foro, la rete di ferro, Giuditta, gli altri. – “Papà adesso ti farà un graffietto, tanto per vedere se sei così forte come dici sempre e che non piangi quando ti graffi, in modo che quando i soldati vedranno quel graffietto sapranno che sei stata forte e che non hai pianto” – dissi a Rachele – sei grande ormai, io lo so. Ma lo devono sapere anche loro. Metterò una cosa nel tuo graffietto e l’avrai così sempre con te. Sarà tua per sempre. Non la toccare mai. Solo quando sarai grande, più grande, grande come la mamma, lo farai. Promesso? – “Piano, piano – , disse il vecchio. Taglio lungo e costante, tutta la lunghezza del seghetto, il ferro non si tratta come il legno. Pianoo, si può spezzare la la…” – non finì la parola. Mi restò un pezzo in mano: l’altro era schizzato via con un rumore secco. Feci correre la voce: – Solo i bambini. Se pensate di voler rischiare, è solo per i bambini. Continuai a segare, sempre con calma, intanto che la voce faceva il giro del vagone. Mi guardarono, quelli più vicini, come fossi un mostro. E strinsero al petto ancor più i loro piccoli. Una donna minuta, pallidissima cercò di farmi segno. Riuscì a sollevare un braccio, disse con un filo di voce: – “Io, io sì. Ho… avevo due gemelli, uno non so più dove sia. Ci hanno separato. Mi resta solo questo. Forse così uno lo salverò. Io sono molto malata e sto morendo. Metti mio figlio insieme alla tua bambina”. Una risata isterica accompagnò il passaggio di mano in mano di quel marmocchio. – Ruth ascoltami bene. Io vi calerò da questo buco quando il treno avrà rallentato. Questo è l’ultimo vagone, non c’è pericolo per le altre ruote. Qualche ammaccatura e qualche graffio. Niente altro. State tranquilli. Copritevi e camminate, di notte, camminate seguendo la ferrovia. Non fermatevi, di notte il freddo non perdona. Segui i binari in senso contrario a quello in cui stiamo andando, lasciati il treno alle spalle. Non avvicinarti alle stazioni. Non… Il treno fermò un attimo, sembrò. Intravidi luci sciabolare, ordini secchi, calai prima Ruth poi Simon, Rachele. Quell’attimo durò un secolo. Era fatta. Loro erano fuori. Il treno riprese la corsa. I mille occhi mi guardarono meno sbarrati. Qualche mano si protese verso di me… – Dio mio, se non sono riusciti a sgattaiolare fuori dai binari li vedranno! – Lo pensai ma non lo dissi, come pensai che… fu Giuditta che lo disse. L’abbracciai, piangevamo entrambi. Il treno si mosse nuovamente. M’imposi di ragionare. L’arresto per una massa in movimento come quella di un treno carico non si fa così d’un colpo, immediata. C’è l’inerzia da superare. C’è quella che occorre contare. Le leggi della fisica non possono mentire. Lo stridìo dei freni, e quando poi il treno ferma completamente… occorre molto spazio. Passarono minuti, molti mi sembrò. Un sonoro sbuffo, un lungo fischio, ancora quelle luci sciabolanti e grida, ordini secchi prima che il treno riprendesse la marcia… Ma stava tornando indietro! – Hanno scoperto tutto! – pensai. Ci fu un silenzio totale dopo quella manovra. Il treno lentamente avanzava. ma in senso contrario. Si udì chiara una voce da fuori, era Ruth: ‘Salvi!’ E poi la notte inghiottì nuovamente il treno e i suoi disgraziati occupanti. Il vecchio, quello che aveva dato il seghetto, mi guardò: – “Hai sentito bene, non è stata un’illusione. Era la voce di Ruth: sono salvi, almeno per ora. Vedrai che ce la faranno… Noi stiamo tornando indietro ma non è per loro, non se ne sono accorti, loro si salveranno”. . [La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (7) – Continua] Per le puntate precedenti, digita – L’intervista di Sara – nel riquadro “Cerca nel sito”, oppure accedi attraverso l’indice per Autore: Taddia 1 commento per La Memoria non dura un giorno. 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L’intenso racconto di Dante, qui pubblicato a puntate (siamo alla penultima) mi ha suscitato molti richiami di film sull’Olocausto – ce n’è una quantità! -, ma non solo.
Ove servisse confermare che la natura dell’uomo ha sempre creato situazioni di discriminazione e di violenza, volevo richiamare qui un film – tempo e contesto diversi – per la stessa scelta (di una madre, stavolta) di salvare suo figlio allontanandolo da sé per dargli la possibilità di vivere (“Va’, vivi e diventa”, la traduzione del titolo originale francese).
Vai e vivrai (Va, vis et deviens), è un film del 2005, diretto da Radu Mihăileanu (regista rumeno, 1958; altri suoi film più conosciuti sono Train de vie – Un treno per vivere (anch’esso centrato sulla Shoah) (1998); Il concerto (2009); The History of Love (2016).
Trama
Africa, 1984. Il Mossad, il servizio segreto israeliano, sta organizzando la cosiddetta “Operazione Mosè” che, con la collaborazione della CIA e dell’NSA statunitensi, ha come obiettivo il trasferimento in Israele di un folto gruppo di ebrei etiopi (i Falascia), un gruppo di origine assai remota, facendoli passare attraverso dei campi profughi in Sudan.
In uno di questi campi vive insieme alla madre un bimbo anch’egli etiope, ma cristiano.
Un giorno, una madre ebrea perde il figlio ammalato, Schlomo, e la madre del bambino cristiano, che comprende come la possibilità di sopravvivere in quel campo profughi sia quasi nulla per il figlio, lo affida alla donna ebrea, sperando che il suo bambino possa fuggire dal campo fingendosi ebreo. Il trucco funziona, e il bambino riesce ad arrivare in Israele.
https://www.youtube.com/watch?v=8be9CNN_oYI
Le scene iniziali nell’accampamento etiope sono bellissime e strazianti, come la separazione della mamma dal suo bambino.
Poi c’è tutta la nuova vita del bambino in Israele, con le difficoltà correlate (come l’incontro con l’acqua alla prima doccia nel nuovo paese: ne ha paura!)
Passano gli anni… nel finale avviene l’incontro del bambino – diventato nel frattempo medico di una forza di pace internazionale -, in un accampamento etiope, con la vecchia madre.