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Reggio Emilia, la storia di tre ragazzi e Sebastião Salgado

segnalato da Sandro Russo

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In mancanza di belle storie ponzesi – ce ne saranno senz’altro, solo che nessuno le racconta – attingiamo alle (belle) storie che riprendiamo dai giornali, come quella appena riportata da Rosanna Conte (leggi qui [1]) e come questa, un articolo di Michele Smargiassi, da la Repubblica di ieri, domenica 20 gennaio (file .pdf in fondo all’articolo).

Vi si racconta di come tre ragazzi di Reggio Emilia riescono ad organizzare una mostra importante di Sebastião Salgado (sull’Africa, inedita in Italia) partendo da pochi elementi di base (un concorso vinto, un locale da sistemare, buona volontà, coraggio di osare… e molta fortuna!).

Di Salgado abbiamo più volte scritto sul sito (digitare – Salgado – in “Cerca nel sito); più diffusamente in occasione della distribuzione in Italia del docu-film di Wim Wenders: Il sale della terra [2], sulla sua opera.

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La storia
I tre ragazzi di periferia che hanno convinto Salgado a scommettere sul loro bar

“Gli abbiamo spiegato il sogno di rilanciare il nostro quartiere multietnico e lui si è offerto di donarci i suoi scatti mai visti in Italia”
I capolavori in mostra a Reggio Emilia

di Michele Smargiassi

REGGIO EMILIA. Bisogna puntare alle cose impossibili. «Sono le uniche che si realizzano» sostiene Claudio, seriamente.
Per esempio, questo posto era impossibile: un elegante caffè letterario al centro del quartiere più degradato, o forse più calunniato di Reggio Emilia.

Invece eccolo. Era impossibile anche un sogno nato cinque mesi fa, per gioco, poi per sfida: portare qui il più grande fotografo del mondo.
Ed ecco, è successo: il 9 febbraio al “Binario 49” s’inaugura Africa, grande mostra di Sebastião Salgado, inedita per l’Italia. Gliel’ha regalata lui. Regalata: costo zero. Quando ha saputo chi sono questi tre ragazzi e i loro amici, e cosa vogliono: «Combattere il brutto col bello».

Per arrivare qui esci dalla stazione, giri a sinistra e punti verso «il nulla nel mezzo del nulla», dicono da queste parti.
Un quartiere di cinquemila abitanti che non è riuscito neppure a farsi dare un nome: lo chiamano solo «zona stazione».
Ti ci portano le molliche da Pollicino di un paesaggio urbano da città multi-qualcosa del terzo millennio: moneytransfer, chinamarket, kebabberie, slotmachine, macellerie halal.
Condomini multipiano molto cementosi, negli anni Settanta qualche pretesa da new town, poi una classica vicenda di sostituzioni e decadenza comune a tante periferie, ed ora ecco, 80 per cento di immigrati, cinquanta nazionalità diverse, titoli allarmisti sui giornali, «ma le statistiche dei reati non sono tanto peggiori del resto della città». Il tipico agglomerato urbano impoverito dove abitano «quelli lì», dove i reggiani non vanno, dove la Lega invece apre un centro operativo e Forza Nuova allunga gli artigli coi cortei «rimpatri subito».

“Binario 49”è una penisola di cemento vetrato in mezzo ai giardinetti vista ferrovia. Era un circolo Arci, spento di consunzione come una candela, «non ci andava più nessuno». Un anno fa il Comune lancia un bando, senza troppe speranze, per «rivitalizzarlo».
Ci sono tre amici di una associazione cultural-sociale, “Casa d’altri”.

Dei tre, solo Alessandro Patroncini ha qualche esperienza specifica, nelle cooperative sociali. Khadija Lamami lavora in banca.
Claudio Melioli è sospeso fra cielo e terra: di giorno ricercatore astrofisico, di sera ceramista. Partecipano al bando. Lo vincono. Si trovano fra le mani un rottame edilizio, in mezzo al quartiere del nulla.
Si calano i caschetti da cantiere in testa. Il Comune ci mette gli impianti. Loro, con una dozzina di soci, tutti volontari, mani spalle e sudore.

Ed eccolo, Binario 49.
Una cosa che neanche nelle vie dello shopping in centro. Libri sugli scaffali, arredo autocostruito di design minimalista, tavolini artigianali di cocciopesto.
Spazio, luce, calore. «Deve essere un posto bello». Gli dicevano: sono sforzi inutili, siete in zona stazione, lì basta poco. «Ma è proprio così che tanti interventi sociali nascono morti. Il brutto produce il brutto», dice Khadija. Quel multiculturalismo al ribasso, assistenziale, paternalista e senza fantasia, l’idea che l’integrazione degli immigrati si risolva con una festicciola al couscous. Loro il 15 settembre scorso partono con uno spettacolo teatrale su Pertini.
Poi musica live, presentazioni di libri, film, corsi di cucina emiliana. «Hanno cominciato a venire quelli che in zona stazione non c’erano mai stati».
Dalle salette in fondo arriva il brusio del doposcuola per trentadue ragazzi del quartiere.
C’è un’aula informatica. Un laboratorio di musica e artigianato per homeless. In un ufficetto appartato ricevono gli avvocati di strada: permessi di soggiorno, sfratti eccetera.

Qualcuno sorride, cosa volete fare ancora. Una grande mostra di fotografia, rispondono.
Reggio è una capitale della fotografia, ogni maggio ospita il festival più importante in Italia.
Sfottò: «Bravi, portate Salgado allora!». Be’, buona idea.
«Ho pianto per il suo libro sulla polio», ricorda Khadija, «anche io ho avuto la polio». Claudio ha lavorato dieci anni in Brasile, anche là un po’ cercatore di stelle, un po’ operatore sociale.
«Avevo buoni amici a Vitória, nelle zone dove vive Salgado. Ho ripescato l’agenda telefonica.
Qualcuno conosce Salgado? Gli può far arrivare un messaggio?». E una domenica mattina assonnata, dopo un sabato notte al caffè, gli ronza il cellulare: «Sono Salgado, so che mi state cercando. Cosa posso fare per voi?». Ci manca poco che Claudio risponda dai, chi sei, non fare il cretino.

Salgado ascolta. Capisce. Decide di regalare una mostra, Africa, cento fotografie originali, il riassunto di trent’anni di viaggi nel continente devastato e saccheggiato, quei reportage dalle carestie e dalle guerre che logorarono l’animo del fotografo e dell’uomo.
«Un regalo immenso», dice Alessandro, «e consapevole. Ciò che Salgado ha fotografato vent’anni fa in Africa ora bussa alla nostra porta, è qui, nelle nostre città». C’è un libro, con un testo dello scrittore mozambicano Mia Couto. Ma la mostra, per l’Italia, è un’anteprima assoluta. Niente grandi musei, stavolta. Ma un bar nel mezzo del nulla. Panico: la mostra è troppo grande, al “Binario” tutta non ci sta. Bene, si fa avanti Lorenzo Immovilli dello “Spazio Gerra”, il raffinato museo civico d’arte contemporanea di Reggio: «Quel che non ci sta da voi lo prendiamo noi». Un luogo comune si ribalta, la cultura da “decentrare”: qui è la periferia che fa un regalo al centro.

Proverà a venire di persona, Salgado, se glielo permetterà un’operazione per un tendine rotto durante i suoi sopralluoghi nella foresta amazzonica. Verrà sicuramente suo figlio Juliano, autore delle sequenze di quello che, assieme a Wim Wenders, è diventato il film Il sale della terra: terrà un workshop per videomaker. Nel grande seminterrato due ragazzi albanesi montano il cartongesso per la mostra. Al centro del nulla sta nascendo qualcosa che nell’Italia di oggi non sembrava previsto.

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Lelia e Sebastião Salgado (Aymores. Minas Gerais. Brasil. Outubro de 2006)

Intervista
Il fotografo: “Aiuto chi osa andare controcorrente”

In Brasile si dice: non c’è male che duri per sempre, né bene che non finisca mai. È come un’altalena, dipende dalla spinta che dai
L’artista: Sebastião Salgado, 74 anni, è diventato fotografo dopo studi di economia

Un regalo «per questi amici che non ho mai incontrato». Per lui, l’Omero dei migranti, il viaggiatore incantato nella Genesi, è stata una cosa naturale.
La voce di Sebastião Salgado arriva dal suo Brasile, in un momento di pausa tra le spedizioni nella foresta amazzonica, per il suo prossimo grande affresco in bianco e nero, un’epica per gli indios minacciati dalla civiltà.
«Un amico mi ha messo in contatto con quei ragazzi. Li ho ascoltati.
Stanno facendo una cosa molto importante, molto umana.
Dovevo aiutarli. Voi dovete aiutarli».

Noi giornalisti?
«Voi italiani. Quello che sta succedendo ai nostri due Paesi è molto simile. Qui la vittoria di Bolsonaro è una minaccia per gli indios, i neri, la povera gente. Da voi crescono la paura e l’ostilità verso i migranti. Chi lavora controcorrente deve essere aiutato».

La sua mostra può farlo?
«Ho scelto la mostra sull’Africa non solo perché in Italia nessuno l’ha ancora vista. Ma perché spero possa far vedere agli italiani cosa c’è alla radice delle migrazioni che li spaventano. Che cos’è stata in questi decenni la sofferenza assoluta di un continente derubato, perché queste persone sono costrette ad abbandonarlo, prendendosi enormi rischi, giocandosi la loro stessa vita».

Crede che sia possibile recuperare un senso di umanità attraverso le immagini?
«Credo che sia necessario recuperarlo dentro le persone.
Non esiste un “essere umano italiano”, esistono gli esseri umani. Noi brasiliani, chi siamo?
Italiani, portoghesi, nativi, tedeschi, polacchi, africani. Voi italiani, chi siete? Figli di popoli che arrivarono, figli di migranti che partirono. Come è possibile dimenticare tutto questo?».

Non sembra il momento migliore per ricordarlo alla gente.
«Nulla è statico nel mondo. Siamo governati da politici ostili, ma non durerà. Non c’è una legge biologica che ci faccia razzisti. Le cose cambiano, perché al fondo ci sono sentimenti che sopravvivono alla paura del momento. Non opprimere l’altro, non rubare, non odiare. La prova sono questi ragazzi di Reggio.
Seri, onesti, nonostante tutto».

Dopo tutto quello che ha visto, in Africa e nel mondo, lei è ottimista sull’uomo?
«In Brasile c’è un proverbio: não ha mal que sempre dure nem bem que nunca se acabe.“Non c’è male che duri per sempre né bene che non finisca mai”. È come un’altalena. Dipende dalla spinta che diamo noi».

– M. S.

File .pdfDa la Repubblica del 20.01.19. I tre ragazzi di periferia che hanno convinto Salgado… [5]

[I due articoli, entrambi da la Repubblica di domenica 20 gennaio pp. 18-19]