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La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (4)

di Dante Taddia

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Sintesi delle puntate precedenti.
Per chi ha seguito finora, Sara Lèvini, giovane giornalista, sta cercando di ottenere una ambita intervista con il professor Isaac Blummenthal, luminare della scienza di origini ebraiche, che si era sempre negato ad ogni contatto con la stampa. Riesce con uno stratagemma ad entrare nella fiducia del professore ed entrambi cominciano a raccontarsi le proprie vite.
Siamo arrivati al punto che Sara sta raccontando la parte della sua vita con la madre in America, dove aveva perso il marito e il figlio (il padre e il fratello di Sara) – e ha serie turbe psicologiche, per cui le due donne decidono di tornare in Italia.

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Dalla puntata precedente: Un giovane medico dopo una delle tante visite di routine mi consigliò di farle cambiare aria. Un cambiamento netto e radicale, decisivo. Venimmo via dall’America e fu quasi un miracolo…

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– Per lei il trauma subito aveva il colore, il sapore, il suono americano. Bisognava recidere quella specie di cordone ombelicale che la legava al dolore e andarsene. Tornare in Europa. Del resto mia  madre con l’America non aveva niente in comune. C’era venuta in un certo momento della sua vita e aveva incontrato mio padre. Si erano sposati e avevano messo su famiglia, avevano trovato  lavoro e interessi.
E’ italiana, anche se ha un nome che sembra straniero, ma è cittadina italiana: Michele, sì e si scrive così. Si chiama Michele. Non Michela, Michelle. Lei è Michele.  E in America la prendevano in giro per quest’ostinazione del suo nome. Non aveva voluto accettare mai nessun diminutivo o vezzeggiativo. Era Michele e tale voleva essere chiamata da tutti. Trascriveva il suo nome in forma sassone per essere sicura che con la pronuncia non venisse storpiato.
– È l’unica cosa che mi resta di me, così. Ce l’ho da quando sono nata – diceva.
Lo ripeteva fino alla nausea. E non le importava di diventare per questo ossessiva e qualche volta anche antipatica. Ma chissà poi perché parlo di lei usando l’imperfetto. E’ molto attaccata, ora come allora a quel suo nome. L’Italia è stata la sua àncora o, come si dice spesso, il suo unico punto d’appoggio per non precipitare nell’abisso più tetro della follia e salvarle la vita. Chissà poi se fosse rimasta… Se fossimo rimasti in America.

Erano stati come pensieri a voce alta, ma Sara si riprese velocemente. Il vecchio professore ascoltava in silenzio e socchiudendo gli occhi assentiva ad ogni ripresa di fiato che Sara portava al suo racconto, come se fosse lui a parlare. Spesso lo faceva durante le loro chiacchierate ma questa volta sembrava che stesse partecipando al racconto più che ascoltarlo.
– L’avventura americana – riprese Sara – piano piano sbiadì nei suoi ricordi fino a rimuoverla e cancellarla del tutto. Oggi non ne parla più. E poi, e poi ci sono io! È tutto.

– Oh Sara – disse il professore – non sai quanto bene mi abbia fatto questa tua storia. Ho rivissuto il tuo racconto partecipando delle emozioni che mi ha dato perché so cosa vuol dire essere orfano di padre. Credevo che la tua fosse una storia più, più normale. Sai, una di quelle storie che si leggono sui giornali, sui rotocalchi. Quelle che scrivono le giornaliste latte e miele. Oh scusa, non volevo. Insomma la classica storia di una famiglia americana: benessere, cinema, college, università, master. Vita dorata degli anni Sessanta. Per questo pensavo non volessi raccontarla per paura di essere troppo banale. Insomma quelle belle storie in cui tutto va bene, in cui ci sono soldi e felicità e che suscitano in chi legge il desiderio di prenderle a modello. Vedo però che è più facile trovare storie molto più simili alla mia che alle altre usuali. Ne riparleremo comunque”.
Poche altre parole. Frasi di circostanza. Convenevoli.
– Ci rivediamo.

Sara ormai lo conosceva bene il professore e quel suo modo un po’ troppo spicciativo e anche deciso nel troncare  una chiacchierata non la meravigliava più di tanto.

Il seguito, se di seguito possiamo parlare, sarebbe venuto poi. Per il momento niente altro. E Sara se ne tornò a casa. Avrebbe rivisto il vecchio solo qualche giorno dopo. Gli altri lavori dovevano pur andare avanti e la cronaca non aspetta.

Il continuo pensare all’intervista aveva fatto passare in secondo piano altri incontri di maggiore presa popolare e, anche se durante le chiacchierate  col vecchio erano venuti fuori altri spunti per bei pezzi, il pubblico esige sempre altro. E il direttore pure…
Quello non scherzava su certe cose, glielo aveva fatto notare spesso.

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Anzi, altro che notare, glielo aveva detto a chiare lettere: – Signorina, non si vive di solo Isaac. Il giornale è fatto di tutti i giorni e per quello si chiama così, giornale, che vuol dire ogni giorno. Altrimenti lo chiamiamo ‘quandocapitanale’  oppure ‘unavoltaognitantonale’. Buona la battuta!?
A lui piaceva fare dello spirito con quei neologismi assurdi che facevano ridere lui e forse quei tre o quattro lecchini che aveva sempre appresso e di cui aveva bisogno per affermare la sua spiritosaggine.
Però aveva ragione: ad una persona razionale come Sara dava fastidio ammetterlo, ma aveva ragione.
Il servizio su quei neonazisti era comunque riuscito a portarlo a termine anche bene e con buon seguito da parte dei  lettori. Un bel lavoro (…c’era stato lo zampino di Isaac, è vero).
Moltissime le lettere ricevute in redazione. Il direttore, quel rompiballe, la perdonò e anzi le fece i complimenti: – Certo che… se… no. Penso… una mia idea. Nel caso potesse collegare questo articolo con il nazismo e  Isaac” si farebbe la…
Isaccheide! concluse Sara.
– Oddio, eccomi scema come il mio capo – pensò.
Signorina, non si vive di solo Isaac, e poi non vedo risultati concreti.

– Io lo odio quel grosso becero del capo quando fa così. Non me ne risparmia una. Attizzare il fuoco e metterci olio sopra – continuò a pensare Sara.
Erano state le parole dette dal Professore tutte d’un fiato… aveva lasciato detto alla segreteria del giornale che ‘volevavederelasignorinaSara’.

L’aveva fatta venire per…
Ho letto quello che hai scritto Sara – le fece Isaac quando si videro.
– Non male. Non è verità però! Quella vera. La vera verità te la voglio raccontare io che l’ho vissuta di persona.
Quello che voleva dirle era molto semplice: – Eccola la tua intervista!

Sara la bocca l’aveva aperta e come, spalancata. Senza sapere se e come respirare.
– Chiudi la bocca, merluzzo – le disse il professore – siediti e stammi a sentire. E se hai qualcosa per scrivere fallo subito, perché non starò certamente a raccontare  due volte le cose. Anzi se vuoi registra pure. Tanto lo so che giri sempre col registratore. E poi non temo di essere smentito da nessuno. La verità non si smentisce, mai, da nessuno.

Queste ultime parole furono dette dal professore con foga, quasi alzando il tono e scandendo le sillabe.
Si riprese subito e con voce calma e pacata Isaac cominciò a raccontare…

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[La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (4) – Continua]