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All’anteprima del film “Una notte di 12 anni”

di Sandro Russo

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Matinée delle grandi occasioni per la presentazione alla Critica e alla Stampa del film “Una notte di 12 anni” (La Noche de 12 Años), al cinema Quattro Fontane di Roma. La pioggia della notte è cessata e ci permette di arrivare in moto; mentre si prepara una giornata di sole…
Dopo la proiezione ci sarà un incontro con Àlvaro Brechner (regista e sceneggiatore del film) tradotto (dallo spagnolo) dalla nostra amica Lorenza.

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Ci immergiamo nel buio della sala e nel film di cui non ho voluto leggere niente, prima; neanche sapevo che fosse un film politico, di passione civile e resistenza umana.

La ‘sinossi breve’ del film riporta queste scarne informazioni:
“1973. L’Uruguay è sotto il controllo di una dittatura militare. Una notte d’autunno tre prigionieri Tupamaro vengono portati via dalle loro celle nell’ambito di un’operazione militare segreta. L’ordine è chiaro: “Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia”. I tre uomini resteranno in isolamento per 12 anni”.
Il film riporta una storia vera; gli uomini sottoposti a questo trattamento erano in realtà nove; il film descrive la vita di solo tre di essi. [2]

Nel corso del film si delinea la risposta alla domanda che i tre (e anche molti degli spettatori) si pongono: “Perché non ci uccidete, invece di farci vivere così?”.
Perché essi non sono solo prigionieri, ma “ostaggi”. Se il gruppo di appartenenza avesse maturato l’intenzione di continuare con le loro azioni terroristiche, dovevano sapere che la prima contromossa da parte del regime militare sarebbe stata l’uccisione dei loro compagni in prigione.

[3]Nei loro vari spostamenti all’esterno i carcerati hanno sempre un sacco sulla testa; qui la prima volta che vedono la luce

Scorrono le immagini dei film – violente a volte, ma mai gratuite nell’economia della narrazione, a volte quasi surreali, nella loro assurdità – e vengono alla mente una quantità di film e i tanti modi in cui l’universo concentrazionario del carcere è stato portato sullo schermo. Ci sono dentro Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé, del 1956 di Robert Bresson del 1956), Papillon (F. J. Schaffner, 1973), Fuga di Mezzanotte (Midnight Express; Alan Parker, 1978); La donna che canta (Incendies; 2010, di Denis Villeneuve) e Il figlio di Saul (Saul Fia; 2015, di László Nemes) e tanti altri che passano per la mente per lo spazio di un attimo – richiamati da un’immagine, un clangore di chiavistelli – e sfuggono via.

Le scarne frasi poste ad epilogo alla fine del film – la vita dei personaggi successiva ai 12 anni di detenzione – accendono (finalmente!) una luce nella mia mente. Non avevo capito che uno dei tre personaggi era José Alberto «Pepe» Mujica Cordano (Montevideo, 1935), che è stato il 40° presidente dell’Uruguay (tra il 2010 e il 2015) [di cui conoscevo per sommi capi l’impostazione ideologica: vedi un filmato da YouTube in fondo all’articolo].
E anche gli altri due – al cambiamento del regime e alla fine della prigionia, avranno ruoli civili e culturali di rilievo.

Il film ha una sua pietas, pur nella violenza e sopraffazione dell’istituzione carceraria; una specie di solidarietà tra i carcerieri e i carcerati che si nutre di poco… piccoli, minimi piaceri scambiati, una lettera scritta, perfino la radio tenuta appena più alta per far sentire la cronaca di una partita di calcio…

E si delineano anche i due livelli del film – confermati dal regista nelle risposte successive alla proiezione: la realtà quotidiana dei prigionieri nel contesto storico della vicenda e, insieme, cosa accadeva nei loro pensieri; come fossero riusciti a mantenere una lucidità, seppur precaria, durante quei lunghi anni. Questo è un punto che il regista ha particolarmente approfondito, parlandone con neurologi, psicologi e psichiatri (…il personaggio di una psicologa entra anche nel film).
Ancora… l’assenza di qualunque sentimento di rancore, o desiderio di vendetta. Lo chiarisce anche successivamente il regista quando risponde a una domanda sui suoi contatti con i veri personaggi (una ventina di incontri, da soli o insieme) e sui loro modi di rievocare quei 12 anni di prigionia; il fatto che ne parlino come di un periodo di profonda conoscenza di se stessi; del bisogno di riderne insieme.

La suggestiva chiusa del film è con la canzone Sounds of silence, di Simon & Garfunkel, riconosciuta immediatamente dalle prime parole… Molto suggestiva e appropriata, prima cantata da Silvia Pérez Cruz, che interpreta anche un personaggio del film; poi sovrapposta alla versione che tutti conosciamo…
Essere nell’oscurità e trovare in essa una rivelazione, imparare ad ascoltare il silenzio”.

[4]Il regista con i tre attori del film

Un ultimo pensiero mi ha lasciato la visione di questo film. La strana coincidenza per cui a così breve distanza di tempo ci si sono proposti all’attenzione (e fedelmente registrati qui sul sito), due film sulle dittature militari sudamericane: il film di Moretti, Santiago, Italia [5] e adesso questo. È un segno, un avvertimento? O siamo noi ad essere diventati più sensibili a questo tema?

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Trailer ufficiale del film da YouTube:

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Di ‘Pepe’ Mujica c’è una ricca aneddotica, sul suo parco stile di vita (anche quando era Presidente dell’Uruguay). Qui di seguito il suo discorso all’Assemblea dell’ONU del 2012 in Brasile:

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