di Pasquale Scarpati
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Vita sul mare
Un po’ di anni fa un contadino che lavorava la terra ’n’faccia ’u Ffieno o ’n’faccia ’u ciglie o ’n’faccia ’u Camp o alla Calacaparra vedeva, dall’alto, il vasto mare solcato da pochi bastemient’ a vela, da vuzz’, lanz’, sanduline o canott’ tutti rigorosamente a remi.
Poi si cominciarono a vedere i primi, lucidi, motoscafi di legno, entrobordo.
L’ingegnere Morandi (…sì, proprio lui!) aveva assunto una persona dell’isola affinché portasse il suo natante da Anzio a Ponza. Il motoscafo era ormeggiato alla banchina “nuova” e qualcuno, qualche volta, provò l’ebrezza della sua velocità e, pur essendo ancora bambino, gli fu anche permesso di guidarlo sia pur per breve tratto e sotto stretta sorveglianza. Gli sembrò che tutto fuggisse come un lampo: Lanternino, scogliera, Santa Maria. La Ravia gli veniva incontro troppo precipitosamente! L’ingegnere soleva camminare con passo spedito per le vie e saliva quasi di corsa le scale della Dragonara solitamente fischiettando il motivo di un noto (ai tempi) valzer lento [(*) – dopo che per alcuni giorni mi è “frullato” per la testa, sono riuscito anche a ricordarlo e identificarlo: ascolta qui].
Sulla medesima banchina, durante l’estate, passavano dei bimbi in fila a due a due tenendosi per mano. Era la cosiddetta “colonia marina”: bambini di Roma e dintorni che erano accompagnati per godere un po’ di mare. Alcuni giorni, prima di andar via, essi solitamente usavano malinconicamente cantare: “Oggi è la vigilia/domani è la partenza/ addio Ponza bella/ non ti rivedremo più…!
Chissà se qualcuno di essi non ha tenuto fede a ciò che cantava ed è ritornato ammirando con occhi nuovi le bellezze e notando i cambiamenti!
Ma molti abitanti dell’Isola ed anche di altri paesi, pur non facendo parte della “colonia marina”, furono costretti a cantare la stessa, triste, canzone! Non so se deliberatamente abbiano deciso di non ritornare oppure ciò sia stato impedito dalle necessità; comunque sia, pare che nulla, fino ad ora, sia stato fatto per questo scopo. “Sarà forse la paura…” – ha detto qualcuno- “o forse pochi sono quelli che rimangono o forse “i furastieri” residenti sono divenuti più numerosi degli antichi abitanti dell’Isola”.
Non era raro vedere qualcuno che si esercitava nello sci nautico persino nella baia del Porto tra Giancos e Santa Maria, portandosi a ridosso della Caletta! Ogni tanto si avvertiva il ronzio di un piccolo fuoribordo che doppiava la Ravia o spariva dietro la scogliera del “Lanternino”. D’altra parte, come bimbi dispettosi che amano fare confusione, ogni tanto si diffondeva un fracasso di qualche vuzz’ a motore che fuggiva dal Porto o rientrava dopo una “missione umanitaria”: aveva portato le vettovaglie al guardiano del faro a Zannone. Era talmente raro che al sentirlo già si sapeva a chi appartenesse [mi era familiare, molto familiare quello di Gigino (Parisi)… che belle traversate fino a Zannone!]. Non disdegnavo, altresì, salire su qualche sua barca a remi ormeggiata nei pressi di “Gennarino a mare”, là sotto il muro, anzi…
Per la pesca non vi erano né eco scandagli né altre “diavolerie” per cui le reti, a maglie “larghe” venivano poste là dove da secoli gli antenati avevano scoperto il ’u pass’ o dove il fondale era pescoso per determinate specie: le famose chiazz’ ’a rena. Le reti, pesantissime, erano tirate a viva forza e le mani, sanguinanti prima di divenire callose, erano anche doloranti a causa della salsedine.
D’estate bisognava far presto perché il sole sorgeva molto presto (non c’era l’ora legale) e la calma piatta e la luce diafana che illanguidisce sulla scarsa onda favoriva l’abbondante sudore: il mare era come l’ olio.
Nelle giornate tempestose, quando l’onda si agitava sotto la barca e la faceva sobbalzare di qua e di là, diventava difficile mantenere l’equilibrio; la spina dorsale si curvava e la schiena era dolorante mentre il natante sembrava un cavallo selvaggio che non si lasciava domare. Si rischiavano, pertanto, contusioni o addirittura capovolgimenti se non si aveva il giusto equilibrio (come in tutte le cose).
Ma negli occhi era accesa la speranza.
Anche il pescato doveva essere “in equilibrio”: né molto né poco.
Nel primo caso vi era un deprezzamento e spesso il pesce invenduto si ributtava in mare. Non per paura di sanzioni ma perché semplicemente non esistevano frigoriferi o congelatori che potessero conservarlo. Il solo ghiaccio portato da Terracina, in sacchi di iuta, non bastava per la sua conservazione. D’estate si scioglieva rapidamente e d’inverno spesso era carente.
Alcune specie rimanevano invendute o perché troppo costose o perché considerate poco convenienti per sfamare un’intera famiglia. Quindi ritornavano da dove erano venute andando a nutrire i pesci del Porto.
A volte alcune specie si compravano ma solo “per sfizio” come ’u fellone; li ricordo quando numerosissimi riempivano i sacchi di iuta.
Trasformavamo le pinze delle grosse chele in giocattoli: qualsiasi cosa era adibita a trastullo.
D’altra parte se il pescato era poco non si guadagnava lo stesso niente. Ma allora non c’era nessun problema per approvvigionarsi di cibo e altro: il quadernetto degli esercenti le attività commerciali stava a portata di mano e raramente si veniva meno alla parola data: si saldava il tutto o in parte quando se ne aveva la possibilità.
Pare che ci fosse un detto: Si vuo’ essere puveriell’, fatt’ piscator’ o acchiapp’auciell’: era tutto un programma!
I primi mezzi motorizzati
Mentre sul mare “sfrecciavano” natanti di tal fattura, sull’unica strada asfaltata sfrecciava… una ed una sola automobile, quella del dott. Martinelli. Quando, in seguito, cominciarono a “ sbarcare” altri mezzi motorizzati: qualche triciclo(furgone) qualche camion (di Francisc ’u lup’ o di Nicola ’a checca), nessuno pensò e parlò della “tassa di sbarco” né della sosta a pagamento né di altri balzelli che oggi dovunque incidono moltissimo sulle spese di chi “osa” andare in vacanza.
Queste “spese occulte” costano di più di quelle “ordinarie” determinate dal semplice soggiorno. Per non parlare poi del costo del “trasferimento”: tra carburante, biglietto, pedaggi, multe inopinate, sembra quasi di camminare o per meglio dire viaggiare in mezzo ad un campo minato.
Maurino e qualcun altro da meccanici motoristi di motori navali, si trasformarono in meccanici di motori terrestri.
Ma le auto avevano, però, altre “ esigenze” rispetto alle barche tra cui la foratura delle gomme. Avresti visto allora i meccanici aggirarsi intorno ad esse come leoni intorno alla preda ed aggredirle con: “piedi di porco”, cacciaviti, martelli ed ogni altro attrezzo che poteva servire per togliere il sozzo copertone.
Innanzitutto si sollevava il mezzo e molte volte lo si poneva su appoggi di fortuna: assi di legno o pietre. Poi si toglieva la ruota dal suo asse e la si poneva su una base di pietra o per terra. Si cominciava ad infilare il “ piede di porco” per sollevare un lembo del copertone e in esso si poneva il primo grosso cacciavite, poi un altro da un’altra parte. Martellate che sollevavano nuvole di polvere. Infine il copertone cedeva e si apriva. Appariva la nera, lucida, liscia camera d’aria. Faceva da contraltare al copertone ruvido e scanalato. La si agguantava e la si tirava fuori a strattoni come una murena o un capitone dalla sua tana. Si rigonfiava e si immergeva in una bacinella d’acqua sporca per verificare dove fosse il buco. Individuato, lo si otturava con l’asprigno mastice ed una pezza. Intanto il copertone giaceva lì come cosa abbandonata, semi attaccato al suo cerchione in attesa che la camera d’aria si potesse di nuovo frapporre tra lui ed il cerchione.
Quando la pezza si era ben asciugata la si infilava di nuovo. Questa volta l’uomo si poneva a cavalcioni; adoperando ancora una volta le maniere forti, lo costringeva a richiudersi.
Grasso dappertutto, braccia e mani costantemente sporche. Quanta fatica!
Detto per inciso, quando giunsi in terraferma e vidi gli strumenti che si usavano per cambiare le gomme, in modo rapido e preciso, rimasi molto meravigliato.
[Racconti e metafore (5) – Continua]
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