Ambiente e Natura

Racconti e metafore (4). L’approvvigionamento idrico, il lavoro nei campi

di Pasquale Scarpati

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L’approviggionamento idrico
Ovviamente da nessuna parte esisteva l’acqua che oggi esce abbondante e senza sforzo dai rubinetti: solo pozzi. Non quelli artesiani! Che bucano, bucano e bucano dappertutto ed in profondità e, come il tarlo che buca il legno e lo rende fragile, così questi pozzi rendono fragile la roccia che alla fine non può non cedere.

Al Porto, essi erano riempiti con l’acqua trasportata dalle navi cisterne. Su per i Conti, a Santa Maria (dove, però, esisteva anche qualche pozzo con acqua sorgiva ma salmastra) o alle Forna, invece, i pozzi erano riempiti esclusivamente dall’acqua piovana. Tutta, comunque, centellinata e faticosa da captare.

Ovviamente di frigoriferi (neppure quelli con la…chiave: chi non li ricorda?) o di cucine a gas nemmeno a parlarne.

Legna e carbone in un angolo della cucina in muratura – ’a furnacèll’  (che durante l’adolescenza avremmo conosciuto metafora di ben altro!) -, pentole nere e scafaree di terracotta. Strofinacci ’nzvàte (unti), appesi a qualche rozzo gancio. Di fresco c’era solo qualche bacchetta di ghiaccio che lasciava cadere molteplici gocce e qualche pezzettino che veniva raccolto, direttamente dal selciato della strada, da qualche bimbo di passaggio; il quale, immediatamente lo succhiava con voluttà o, per non “bruciarsi le mani”, se lo infilava in bocca per intero, incurante dei germi o di ogni altra cosa che vi si fosse depositata. A chi ha chiesto perché mai non avessimo paura di contrarre malattie per un’igiene molto carente e per i cibi non proprio puliti e protetti, il solito mattacchione ha risposto che in quel tempo batteri, germi e virus erano andati a nascondersi per la paura di affrontare essi stessi una vita così dura!

Il lavoro dei campi
I contadini coltivavano la terra con gli antichi metodi dei padri; avevano cura delle parracine, delimitavano le proprietà con canali o con il fico d’india. Il candore della calce si spandeva dappertutto: sui tetti a cupola, sui pavimenti delle case privi di mattonelle, ’nd’i curteglie ed infine anche sui tronchi d’alberi quali antidoto contro i parassiti tra cui i sanguinolenti peducchie mullìse (la cocciniglia cotonosa?).


La terra veniva dissodata con il piccone, con la vanga, ma soprattutto con il robusto bedènt’ (bidente) che, impugnato da mani callose di uomini e donne fin dall’alba, affondava nella terra sollevando zolle che erano spaccate con lo stesso attrezzo o in seguito con la zappa o ’u zappòn’ che serviva anche per tirare i solchi nei quali già è stato inserito “l’odoroso” letame ricavato dalle stalle o dai “depositi” posti al di sotto del buco del gabinetto e trasportato dall’asino che, caracollando, lo spargeva lungo la strada o lungo i sentieri dove già “sostavano”, ricoperti da miriadi di mosche, gli escrementi degli altri animali.
Pertanto bisognava stare molto attenti a “dove mettere i piedi” che ha assunto ed assume anche un altro significato. In compenso se accadeva “la disgrazia” (e non era difficile dato il gran numero) di finire con la scarpa o con il piede nudo su una di quelle “masse”, si diceva che portasse “fortuna”. Fatto sta che si aggiungeva “odore” ad “odore” e il problema veniva risolto strofinando il piede sull’erba o strofinando una pietra sotto la “suola”. La carta e le “pezze” erano un po’ difficili da reperire per queste “ sciocchezze”.

Non mancavano, pertanto, il raglio dell’asino, il belato delle pecore e di qualche capretta, il muggito di qualche mucca, il grugnito del maiale. Ma dappertutto era il gallo che annunciava il nuovo giorno e “suonava” la sveglia molte volte ancor prima del sorgere del sole.
Durante la vendemmia era un via vai di ceste di vimini portate o sulle spalle degli uomini e delle donne oppure sugli asini. L’uva era prima versata nei palemiént’ in muratura, poi pigiata con i piedi.
Il mosto si raccoglieva in una vasca sottostante anch’essa in muratura nella quale su di un lato, dalla parte della pendenza, vi era un piccolo incavo nel quale si raccoglievano le ultime gocce. Nulla andava sprecato.

Dalla terra, inoltre, provenivano i fichi che essiccati e posti in alcune casse erano offerti come dolce regalo ai bimbi ed anche gli adulti non disdegnavano masticarli dopo il pranzo o la cena. Non importava se in mezzo a quel “dolce” ci fosse anche un po’ di carne! (leggi: verme).
Ma il dolce più gradito era ’a mustarda”, che veniva messa prima ad essiccare sui tetti, poi custodita in qualche cassapanca.

Prima morbida come crema granulosa, poi asciutta e dura, messa a bollire insieme ad altri elementi quali il fico secco o la carrube serviva per ottenere il “decotto” che era lo sciroppo del tempo. Si riteneva, infatti, che non solo lenisse la tosse ma che fungesse anche da espettorante.

Nella terra e dalla terra erano raccolti anche i vermi detti carùle che erano posti al centro delle tagliole di ferro poste ben in vista dopo aver liberato il terreno dalle erbacce e da ogni altra cosa che le potesse nascondere; esse erano legate con uno spago ad una piccola canna posto poco distante affinché l’uccello prigioniero non le portasse lontano, specialmente ’u crasteche (l’averla) dal becco ricurvo.

I vermi, stretti in una molletta di ferro o infilzati in un sottile filo di ferro posto al centro della tagliola, invano si dimenavano: essi fungevano da esca. Divenivano, pertanto, preda degli uccellini di passaggio i quali, pensando di rifocillarsi dopo il lungo viaggio, trovavano, invece, una morte atroce. Il fatto era che anche agli uomini occorrevano le proteine animali, difficili da reperire da ’na fell’ ’i carne poiché essa era inaccessibile per buona parte dell’anno alla maggior parte delle famiglie!

Ma, durante le “feste comandate”, quando essa diveniva la “regina della tavola”, non era raro che fosse accompagnata anche dal “suo re”: ’a sfumante (lo spumante) che chiudeva solennemente una giornata solenne sotto tutti i punti di vista.
Prodotto artigianalmente con “metodo biologico”, oggi diremmo: senza conservanti né coloranti, era portato in tavola con solennità, quasi trofeo. Era contenuto in una bottiglia piuttosto scura dal vetro abbastanza spesso, chiusa ermeticamente da un tappo di ceramica che aveva anche una guarnizione di color arancione. Tutto questo perché lui, nel momento dell’uscita dalla bottiglia letteralmente sarebbe fuggito via. Era ansioso, infatti, di scappare dalla sua prigione. Avrebbe voluto vedere il mondo, liberamente, andando dappertutto: sulle pareti, sul soffitto o fuori dalla finestra. Ma l’uomo lo sottoponeva al suo volere, in attesa che perdesse la sua forza perché si sa che, spesso, le persone e le idee vengono “addomesticate” non con la forza bruta, violenta ed improvvisa, ma piano piano con l’indottrinamento o per meglio dire con la catechizzazione costante.

Afferrata la bottiglia, con mano ferma la si introduceva nel boccale dalla bocca larga (mi sembrava come quando si tirava il collo ad una gallina). Poi, piano piano, si sganciavano i ferri che avevano tenuto il tappo incollato sull’imboccatura della bottiglia. Lui prima tentava di uscire con forza e velocemente, sbavando o per meglio dire spumeggiando, poi si addomesticava. Era un prodotto di un lavoro lungo e certosino. Veniva, infatti, da acini d’uva selezionati uno ad uno; il dolcissimo mosto era filtrato con accortezza e con panni di lino più e più volte. Infine era imbottigliato con cura e lasciato riposare. Limpido di colore giallino sprigionava la sua forza ed il suo sapore e le papille gustative avvertivano un’armonia celestiale. Dolce e frizzante si gustava fino all’ultima goccia tenendo il bicchiere ben stretto quasi come se si potesse spremere. Dava allegria e chiudeva nel modo più giusto un gioioso evento che non era stato disturbato da “alcun marchingegno” che, senza preavviso, si inserisce dappertutto interrompendo non solo la voluttuosa degustazione delle pietanze ma anche una piacevole conversazione.

Ovviamente non esistevano “marchingegni” elettrici di nessun tipo. Si andava a dormire con le “galline” e su un materasso rumoroso, imbottito di crine che spuntavano come spilli dalla stoffa e, vendicativi, andavano a pungere chi li schiacciava. Ci si alzava alle prime luci dell’alba. Si usava il fuso ed il telaio in legno. Il sale veniva pestato nel mortaio e quando si cucinava il ragù, nella pignatta di creta, sul carbone o sulla legna, si spandeva l’odore della sugna (posta in capienti vesciche, che in genere stavano appese in “bella vista” nei negozi) comprata a peso o del lardo insieme a quello della conserva; questa era pomodoro “concentrato e conservato” in barattolini da 50 gr o (all’ingrosso) in grossi recipienti di ferro, venduto a peso e posto in una carta “oleata”.
Chi aveva la possibilità, durante il periodo estivo metteva ad essiccare al sole il pomodoro in larghi recipienti di legno dopo averlo setacciato. Lo copriva con cura per evitare “l’assalto” delle mosche.

Spesso, al momento dell’utilizzo, il sugo era molto “lento” o diveniva denso a seconda della consistenza economica della famiglia e del numero dei suoi componenti.
Ma, mentre si cucinava, quell’odore inconsueto colpiva l’olfatto dei bimbi che si facevano tagliare una fetta di pane, sempre raffermo perché sfornato molti giorni prima, su cui veniva sparso, con un cucchiaio di legno, un po’ dell’olio della preparazione del ragù, prima di aggiungere il pomodoro: era una leccornia! In genere tutto era “ben soffritto” per dare più sapore al palato ma non allo stomaco (ma a questo allora nessuno faceva caso).

La carne del pollo, veramente una rarità, era abbastanza “soda” se non troppo dura per i denti di oggi poiché lui (il pollo), nato da una chioccia, era stato veramente “razzolante e ruspante”. A lui erano stati offerti, oltre alle foglie dei cavoli o di altri ortaggi e agli avanzi di pane anche il “granone”.
Ai conigli si dava oltre al pane molto raffermo anche una determinata erba che neppure doveva essere troppo bagnata perché avrebbe causato malattie e morie tra gli stessi che sono molto delicati.
La vrenna era il cibo dei maiali nel momento in cui dovevano iniziare ad ingrassare per la loro “festa” che avveniva per lo più nelle fredde giornate di gennaio. Il sanguinaccio e le fegatelle avvolte nella rete e fritte avrebbero riscaldato i sensi dell’uomo; di quello che avevano mangiato non vi era alcuna traccia.
Il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino rosso spillato da una botte e messo in un fiasco avvolto dalla paglia in una cantina che sapeva di muffa e di vino.

[Racconti e metafore (4) – Continua]

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