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Debito pubblico, i correttivi possibili (2)

di Enzo Di Fazio

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Alla fine della prima parte – leggi qui [2] – mi chiedevo se ci sono strade da percorrere per ricondurre il debito pubblico entro limiti fisiologici.

Premesso che l’appartenenza all’euro per il nostro paese ha solo significato stabilizzazione dei cambi e riduzione dei tassi di interesse, ci vorrebbe innanzitutto, assieme ad una equilibrata revisione delle aliquote fiscali, un impegno tutto politico ed interno al paese per far emergere le attività sommerse derivanti dai fenomeni di corruzione ed evasione che, secondo il ministero dell’Economia (rilevazioni 2017), privano lo Stato di risorse tra i 255 e i 275 miliardi annui (quasi dieci finanziarie!).
Qui, come dicevo, è questione di volontà politica oltre che di maturità del popolo. Logica e buon senso consiglierebbero, considerato il particolare momento, di trarre risorse, dall’immenso patrimonio illegittimamente accantonato, attraverso una serrata lotta all’evasione e l’applicazione di tasse adeguate all’entità dei patrimoni sottratti.

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Ma si sa, una posizione del genere richiede da parte della classe politica coraggio e visione oltre il consenso elettorale. E da parte della società civile un po’ più di solidarietà verso il paese e le future generazioni. Praticamente un sogno.
Molto più semplice allora fare cassa ricorrendo a continui condoni fiscali a prezzi scontati.

A questo punto, considerate le difficoltà di percorrere una siffatta strada, è interessante pensare ad una soluzione a livello europeo visto che tutti i paesi sono indebitati e una buona parte di essi (quelli dell’area occidentale) lo è oltre i parametri di Maastricht che prevedono un rapporto debito/Pil del 60 %.

Nel 2017 – secondo i dati Eurostat – il debito medio dell’Eurozona è pari all’ 87 % del PIL.
Nella situazione peggiore ci sono la Grecia (178,6 %) e l’Italia (131,8 %); in quella migliore l’Estonia con il 9 % e il Lussemburgo con il 23 %.

Le prime righe dell’art. 97 della nostra Costituzione dicono “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”, concetto – se ce lo ricordiamo – spesso richiamato dal presidente Mattarella.
Da questo articolo, introdotto con la legge costituzionale n. 1 del 2012, discende l’obbligo del pareggio di bilancio e la normativa del Fiscal Compact: accordo europeo in base al quale si richiede la riduzione del debito al 60 % del Pil in 20 anni. Le due cose, pareggio di bilancio e fiscal compact, in Italia non sono state finora mai applicate ma piuttosto contrastate, sia dagli ultimi governi passati che da quello presente.
Si badi bene che l’esigenza di equilibrio di bilancio non è un concetto nuovo, tanto che già nel 1946 (riprendo un passaggio di un articolo di Rocco Artifoni, vicepresidente dell’Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico) all’assemblea costituente Ezio Vanoni disse:
“Il governo deve avere la preoccupazione che il bilancio sia in pareggio e la stessa esigenza non deve essere trascurata da una qualsiasi forza che si agita nel Paese e che avanza proposte che comportino maggiori oneri finanziari”. Sembra detto oggi.

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Incrementare il deficit, traducendosi in un aumento degli interessi, non fa altro che rendere i poveri ancora più poveri in quanto sottrae risorse alla ricerca, alla cultura, ai servizi, agli investimenti produttivi, tutte cose che vanno in direzione del miglioramento della competitività e quindi della produttività.

Ritornando al rapporto debito/Pil nei limiti del 60 % esistono diverse ipotesi e progetti per cercare di ristrutturare il debito europeo e renderlo politicamente sostenibile.

Si tratta di progetti a volte più articolati e complessi, altre volte più praticabili.
Non sto qui a illustrarli essendo tutti imbevuti di teorie economiche. Partono tutti comunque dalla constatazione che l’elevato debito è un cappio al collo per la ripresa economica e che la rimodulazione di quello europeo necessita di una buona dose di solidarietà da parte dei singoli Stati. Si tratta in effetti di mettere insieme la parte eccedente il 60 % del PIL trasformandola in titoli di debito europei (una sorta di super-bond) sostenuti dalla BCE con apporti in garanzia da parte dei vari Stati secondo l’entità del proprio debito. In altri termini, una formula un po’ simile al Q/E posto in essere da Draghi a partire dal 2015 e che si concluderà a dicembre di quest’anno (leggi al riguardo Il sostegno all’euro e il compito di Draghi [5]).
Ciò ovviamente presuppone un cambio di passo degli organismi europei ed un approccio più flessibile da parte degli stati più forti, come la Germania.
D’altro canto, se viene meno la condivisione delle problematiche, viene meno anche la solidarietà degli Stati e cioè la più importante ragion d’essere dell’Eurozona.
Nel frattempo è intuibile come sia difficile gestire il debito pubblico che abbiamo, come sia importante evitarne l’ampliamento e come siano limitate le azioni di manovra se si continua a porre in essere la politica di sempre senza incidere sui privilegi.

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Sono reduce da un incontro di lavoro nell’ambito del quale si è discusso anche d’Italia, di euro, di debito pubblico e di mercati.
Qualcuno ha definito l’Italia un paradiso fiscale parlando di imposte di successione e l’ha detto mettendo a confronto la nostra normativa con quella degli altri paesi europei.
In Italia le imposte vanno dal 4 all’ 8 % e gli eredi in linea retta (coniuge superstite e figli) per il patrimonio caduto in successione non pagano nulla fino a 1 milione di euro ciascuno.
In Germania, in base agli scaglioni, l’imposta oscilla tra il 7 e il 50 %, in Francia tra il 5 e il 60 %, in Gran Bretagna arriva fino al 50%.
Ciò significa che chi riceve in eredità un patrimonio di un milione di euro, in Italia paga 0 (zero), in Germania 75.000,00 euro, in Francia 195.000,00 e in Gran Bretagna 250.000,00.

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L’Italia è prima in Europa per evasione, è tra le prime per corruzione (dopo di noi solo Grecia e Bulgaria), è tra le peggiori per burocrazia, ha il debito pubblico più alto in valore assoluto.

L’Italia destina alla ricerca solo l’1,33 % del PIL (dovrebbe destinarvi il 3% ) al disotto della media europea che è del 2,03 %.
Ciò la colloca al terzultimo posto. Insomma solo primati negativi. Mio padre avrebbe detto: “ma chi l’adda salva’ ‘stu paese
Abbiamo, però, anche una ricchezza privata tra le più alte al mondo, un export di buon livello, un’industria manifatturiera efficiente, un patrimonio di bellezze naturali ed artistiche che tutto il mondo ci invidia, eccellenze in tutti i settori dello scibile umano.

Abbiamo in definitiva le risorse per riscattarci. Farlo dipende, in parte, anche da ognuno di noi.

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Infine qualche parola sulla difesa del risparmio.
Vincenzo chiede come si può garantire ai cittadini di conservare i risparmi in un contesto di privatizzazione delle banche.
Delle banche abbiamo bisogno. Ne hanno bisogno le imprese e gli artigiani per operare e ottenere credito, i lavoratori per accedere al credito al consumo e avere i mutui da destinare all’acquisto delle case, i risparmiatori per custodire ed investire i propri risparmi.
La privatizzazione è stata un’esigenza dettata dal mercato e dalla necessità di ricapitalizzarsi proprio per operare in un mercato sempre più evoluto.
Oggi le banche seguono un po’ le sorti dello Stato italiano avendo in pancia una buona fetta del debito pubblico (il 26% come ho ricordato in un precedente scritto). Non a caso il loro rating di norma è come quello del paese Italia.
La legge sul fallimento delle banche (il famoso bail-in *) ha fatto chiarezza sui rischi connessi a certi investimenti per evitare che si ripetano fatti come il caso Banca Etruria.
Le direttive comunitarie relative alla Mifid I e II (la normativa europea tesa a tutelare maggiormente il risparmiatore), seppure applicate tardi in Italia, sicuramente costituiscono un mezzo efficace per obbligare gli intermediari finanziari ad operare in trasparenza e nel rispetto delle esigenze e del profilo di rischio del cliente.
Anche il risparmiatore deve, però, fare la sua parte, acculturandosi e informandosi visto che il 63% degli italiani non possiede le conoscenze finanziarie di base.
Va detto comunque che non c’è risparmio investito che non comporti rischio.
Il risparmio in sé non ha alcun significato; ha valore se lo associamo a delle esigenze che vogliamo soddisfare, a degli obiettivi che vogliamo raggiungere o a dei progetti che vogliamo realizzare.
Il valore aggiunto lo fanno la definizione degli orizzonti temporali, la diversificazione (per paese, aree geografiche, valute e settori merceologici), la pianificazione e la consulenza professionale.

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La tutela del risparmio, al di là delle cose dette, dipende, a mio avviso, molto dal consolidamento dell’Europa come Unione di Stati Federali e dal rimanere nell’euro.
Ipotesi di uscita per rafforzare la sovranità nazionale e riavere “la nostra bella lira” o il perseguimento di attività che ne mettono a rischio la permanenza, non fanno altro che alimentare incertezze e danneggiare il paese e la sua gente.

 

(*) Il bail-in, letteralmente dall’inglese “salvataggio interno o dall’interno” è una modalità di risoluzione di una crisi bancaria tramite l’esclusivo e diretto coinvolgimento dei suoi azionisti, obbligazionisti, correntisti.