Ambiente e Natura

Lettera da Palmarola

di Stefano Testa; illustrazioni di Yuliya Odynokaya.

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Pochi conoscono la vera storia di Silverio e Ormisda, santi protettori di Frosinone, ascesi al soglio pontificio tra il 514 ed il 537 D.C. Il seguente racconto e la breve biografia in calce intendono ripercorrere, senza alcuna pretesa di esaustività, la vita e le vicissitudini dei due grandi papi ciociari, protagonisti di un caso assolutamente unico nella millenaria storia della Chiesa

Caro Padre, ti scrivo questa lettera ben sapendo che essa, malgrado tutto, ti giungerà in un battito di ciglia, sulle ali dei mille messaggeri celesti che ti circondano, ai piedi dell’Altissimo.
Seppur fiaccato dalla lame e dagli stenti attingo dalla mia memoria; e ti immagino così come ti ricordo: sorridente, sereno, con la barba bianca, illuminato dalla tua immensa santità, ammesso alla contemplazione del volto di Nostro Signore Iddio, mentre misericordioso perdoni i miei crudeli carcerieri. Come peraltro, da tempo, ho già fatto anch’io. Ho assolto infatti coloro che meno di un anno addietro ingiustamente mi spogliarono dell’abito pontificio, e mi esiliarono nella lontana Licia. Sai bene che fu solo grazie all’intercessione del vescovo di Patara che venne finalmente riconosciuta la mia innocenza. Ma – ahimè – non anche il diritto alla piena libertà.

E fui infatti condotto sull’isola di Palmarola, a poche leghe da Ponga. Qui, cinque mesi or sono, venni esiliato con la forza dagli sgherri di Vigilio, senza alcun riguardo per la carica che Iddio mi aveva concesso di ottenere. Da allora patisco gli effetti di una condanna ingiusta. Come nasconderti che la pena inflitta violenta i miei stanchi sensi.
E se è pur vero che attraverso le grate della finestra di questa prigione mi sono giunti, durante l’estate, i profumati soffi dei fiori della macchia mediterranea ed il suono incessante delle cicale, è anche vero che solo una volta dal mio arrivo, grazie alla bonomia di uno dei carcerieri, mi è stato concesso di uscire di cella per qualche ora. In quella occasione ebbi modo di passeggiare per i sentieri di questo bell’isolotto. Esso, con la sua forma triangolare, le alte coste frastagliate sulle quali volano centinaia di gabbiani, le calette d’acqua limpida e le colline di ginestre mi si palesò come un luogo quanto meno dignitoso dove trascorrere il resto dei miei giorni.
Da quella grata però, adesso, il mare lo intravedo appena, mentre sbatte le sue onde sulle rocce. Ne sento addirittura il suono. O forse, quel che odo, è solo il tonfo del mio cuore lacerato dal dolore di non poter più servire la carica pontificia come il Padre Nostro aveva voluto che fosse. Ma so bene che se la crudeltà, la durezza dell’animo degli uomini che mi hanno ingiustamente destituito ha prevalso, ha offuscato le loro menti, ha armato le loro mani, ha piegato i loro cuori, è solo per un attimo. Perché presto tornerà a prevalere la volontà di Dio su quella del maligna Ma un dubbio, un dubbio atroce mi rode. Del quale ho vergogna. Umana vergogna. Che Dio mi perdoni! Ben sai che altri non ho ai quali esporre tale dilemma. Non certo gli aguzzini che da giorni, o ramai, non mi portano più il cibo; non Vigilo stesso, che immagino aspetti solo la mia morte per succedermi, a suo dire, degnamente. Non di meno Belisario, Teodora od Antonina; veri occulti artefici, attraverso una vile lettera apocrifa, della mia vergognosa destituzione.

Mi chiedo infatti: e se fosse proprio questo il disegno dell’Altissimo? E se fosse per sua stessa volontà che un discendente di Pietro – quale sono – è costretto in ceppi lontano da Roma addirittura da un suo indegno successore? Orbene, se davvero così fosse, se davvero Egli così avesse voluto, in forza di quale privilegio io potrei sentirmi in diritto di gemere per le offese subite, di lamentarmi per le violenze perpetratemi, di patire per Io scempio che il mio corpo ha sino ad oggi sopportato?
Se davvero i morsi della fame che mi indeboliscono giorno dopo giorno costituiscono il tangibile segno della volontà di Dio, cosa mai potrebbe opporre ad essa questo umile Suo servo? E quali terribili prove ancora aspettano il mio domani? Se mai un domani ci sarà.
Aiutami, padre. Servo del Padre Nostro. Tu che sei stato ammesso a godere la luce del Suo volto, intercedi affinché Egli si compiaccia di farmi giungere sino a questa buia segreta la forza necessaria a rendere granitiche le mie carni ed incorruttibile la mia anima. Vorrei averti accanto a me, padre, per rivelarti di persona che avevo accettato l’investitura papale voluta da Teodato solo con la ferma intenzione di provare a ripercorrere le orme del tuo illuminato regno. La mia, tuttavia, non era stolta presunzione. No. Era semmai innocente bramosia di onorare il retaggio del tuo pontificato quando – rammenti senza meno – le chiese della vecchia Roma e della nuova Roma finalmente tornarono ad essere un’unica Chiesa.
Ma chi ero io per poter ambire a tanta saggia forza? Non mi bastava certo, per riuscire in tale intento ed onorare la nostra stirpe, vantarmi di esser figlio legittimo di San Ormisda, il Papa nativo dell’orgogliosa Frusino, che con l’ausilio di Giustino pose fine allo scisma acaciano tra oriente ed occidente; colui il quale con pugno di ferro in guanto di velluto, alla fine del suo pontificato, delegittimò – senza tuttavia umiliarli – anche i manichei più stolti. No, non mi bastava. Se è vero infatti che non è giusto che le colpe dei padri ricadano sui figli, è parimenti vero che i meriti dei primi non possano essere fonte, per i secondi, di infinito credito.
Ed allora, mi chiedo, cosa ho mai fatto io per meritarmi tale nobile discendenza, per esser ricordato dai posteri con la dovuta devozione? Nulla, mi pare. Anzi ne sono certo. E forse è proprio per questo che qui mi trovo, mio malgrado. Ho il timore – che è oramai certezza – di non essermi adeguatamente opposto alla cupidigia di Belisario e delle sue truppe, di averlo lasciato entrare liberamente a Roma.

Ma cosa poteva davvero fare un umile servo di Dio, quale sono, se non provare a scongiurare che altro sangue innocente scorresse per le sue strade? Cosa poteva fare se non tentare di comporre il nuovo scisma che, da dopo la tua morte, dilania la nostra Santa Chiesa? Forse nulla. In questi mesi che ho trascorso prigioniero tante volte ho pensato a quello che ho fatto ed a tutto quello che avrei voluto fare. Ed in verità non ho rimorsi, semmai solo rimpianti.
Vieppiù ho compreso che oriente ed occidente non sono soltanto i lati del firmamento lungo i quali si muove il sole. Sono oramai mondi diversi, lontani, talvolta inconciliabili. Così come lo sono barbari e cristiani.
Perché Costantinopoli non è soltanto un’altra città, lontana mille leghe da Roma, ma è il cuore del pensiero di quegli uomini empi che hanno stravolto il senso della tua formula. La ricordo ancora, in tutta la sua bellezza: «La prima regola per la salvezza è quella di custodire la norma della retta fede, e non deviare in alcun modo da quanto è stato stabilito dai Padri. Non si devono dimenticare le parole di Nostro Signore Gesù Cristo, il quale disse: Tu sei Pietro, e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa. Questa affermazione è provata dai fatti, tanto è vero che nella sede apostolica la religione cattolica si è sempre conservata pura».


Questo affermasti con la tua immensa saggezza. Da allora molte sono state le genti che hanno seguito le tue parole. Molti coloro i quali festeggiarono, proprio nella cattedrale della capitale d’Oriente, la solenne riunione tra la chiesa greca con quella di Roma. Tempi oramai lontani. Ora tutto è invece nuovamente diviso, lacerato, smembrato. Tanto è vero che taluno, di quelle frasi, non ha tenuto alcun conto e ne ha purtroppo travisato il senso e stravolto il messaggio. Adesso sono stanco, la mano mi trema. Le forze piano piano mi stanno abbandonando. È la fame. Che mi consuma e rende confusi e flaccidi i miei pensieri. Ma non certo la mia fede. Ed allora aspetto la fine. Che sento oramai a me vicina.
Tra non molto avrò il privilegio di rivederti ancora, sorridente, sereno, con la barba bianca, illuminato dalla tua immensa santità, ammesso alla contemplazione del volto di Nostro Signore. Anche per questo ho smesso oramai da giorni di chiedere cibo ai miei carcerieri. Da tempo, del resto, essi non si degnano nemmeno di rispondere ai miei lamenti. Qualcuno, per farmi dispetto, viene a consumare vicino alla mia cella il suo pasto; o addirittura, sazio, getta crudelmente a terra, proprio davanti ai miei occhi, quel che non inghiotte. Che crudeltà! Ma sai bene che non provo alcun odio per loro. Ed allora ti chiedo umilmente di intercedere presso Nostro Signore Iddio affinché li perdoni, “perché non sanno quello che fanno”.
Adesso non piove più. Il clima sembra farsi improvvisamente più mite. Un repentino raggio di sole ha bucato le nuvole autunnali, e l’arcobaleno ha colorato il cielo sino a pochi attimi fa grigio e gonfio d’acqua e vento. Mi rassereno anch’io. Perché forse questa mia lettera, amato padre, ti è già giunta tra le mani. E tu me ne hai voluto dare contezza regalandomi uno spicchio d’estate, proprio in occasione della ricorrenza di San Martino.
Mi sembra di sentire di nuovo quei profumi mediterranei e il suono instancabile delle cicale; mi pare anche di vederle, quelle coste frastagliate gettate nel mare, le colline piene di ginestre e mille gabbiani in volo. Ma forse è solo un miraggio. È il delirio.
O forse è soltanto la fine.

Palmarola 11 novembre 537
Tuo devotissimo Silverio

 

ORMISDA (Frosinone IV secolo) D.C. – Roma 6.8.523 D.C.)
Proveniente da una onorata famiglia di Frusino, Ormisda decise di ricevere gli ordini dopo essere stato sposato. Da tale unione nacque un figlio, Silverio. Ormisda divenne uno dei diaconi di papa Simmaco. Nel 502 DC., durante un sinodo romano, Ennodio di Pavia gli predisse che, un giorno, egli sarebbe stato eletto Papa. Tale profezia si avverò il 20 luglio del 514 D.C. Durante il conclave svoltosi subito dopo la morte di Simmaco, venne infatti eletto pontefice, all’unanimità.
La sua principale preoccupazione fu quella di comporre lo scisma con la chiesa d’oriente. Tale impegno venne premiato, anche grazie all’aiuto dell’imperatore Giustino. Ed infatti, convocato a Costantinopoli un importante concilio, al termine dei lavori le varie fazioni sottoscrissero, il 28 marzo del 519 D.C, la cosiddetta “Formula di Ormisda” che in pratica contribuì a ristabilire l’unità religiosa perduta. Ormisda morì il 6 agosto del 523 e fu sepolto nella basilica di San Pietro.
È il Santo Patrono della città di Frosinone ed il protettore dei palafrenieri e degli stallieri. Si festeggia il 20 di giugno.

SILVERIO (Frosinone 480 D.C. — Palmarola 11.11.537 D.C.)
Figlio legittimo di Papa Ormisda, Silverio divenne anche lui Pontefice 1’8 giugno del 536. Il fatto che padre e figlio divennero Papi, costituisce una circostanza unica nella storia della Chiesa cattolica.
L’elezione di Silverio venne imposta dal re goto Teodato e, in un primo momento, non venne approvata dal clero. Anche perché l’ascesa al soglio pontificio di un semplice suddiacono era malvista, soprattutto dai prelati delle più importanti ed influenti famiglie dell’epoca.
Nel frattempo bizantini ed ostrogoti entrarono in guerra ed anche Roma divenne campo di battaglia. In particolare il re ostrogoto Vitige la cinse d’assedio sottoponendola a devastazioni. L’imperatrice Teodora tentò invano di far entrare Silverio in comunione con Antimo, patriarca monofisita scomunicato di Costantinopoli. Tramò allora per sostituirlo con Vigilo, diacono romano di nobile famiglia. A tal fine utilizzò la figura di Belisario, generale bizantino (che nel dicembre del 536 D.C. aveva occupato Roma) e di sua moglie Antonina.
Predispose infatti una lettera contraffatta nella quale Silverio veniva accusato di essersi venduto al re goto che aveva assediato la città eterna., Con tali ingiuste accuse Silverio venne spogliato della sua carica e venne esiliato a Patara, in Licia (Turchia). Solo per il pietoso interessamento del vescovo del luogo che aveva compreso la sua innocenza, Silverio fu autorizzato da Giustiniano a tornare in Italia. Qui, però, invece di tornare al soglio pontificio, che nel frattempo era stato consegnato a Vigilio, venne esiliato sull’isola di Palmarola. Dove morì di inedia e di stenti, per probabile volontà dello stesso Vigilo, l’1l novembre del 537.
È il Santo Patrono della città di Frosinone e dell’isola di Ponza. Si festeggia il 20 di giugno.

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Nota sull’Autore
Stefano Testa, avvocato del foro di Frosinone ed insegnante di ruolo in discipline giuridiche ed economiche. Ha esordito nella narrativa pubblicando, con la Pulp Edizioni, il romanzo ‘Il Testamento di Don Rodrigo”.
“Avvocato e scrittore con l’hobby del giornalismo”, scrive anche su Latina Oggi.
Da noi contattato per interesse ai suoi scritti, ci partecipa questo suo bel racconto storico su S. Silverio, pubblicato nel 2008.

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