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Benedettini
In quest’epoca di post terremoto le strade a Norcia sono tappezzate di fogli e cartelli con cui persone, attività e associazioni cercano di farsi trovare; segnali per dire: “Ci siamo spostati, ma ci siamo ancora e, soprattutto, vi aspettiamo”.
Anche i monaci benedettini hanno attaccato un ciclostile, al frigorifero dell’ostello, dove comunicano che a seguito del crollo della Basilica in città, si sono ritirati nel monastero di San Benedetto in Monte; le funzioni aperte ai fedeli, in grassetto, sono però davvero poche: solo i Vespri e la messa delle 10.
Questa è la terra di san Benedetto, che ha offerto guida e conforto in epoche buie, e la gente in paese è contenta di sapere che i monaci – ora per lo più americani – non se ne sono andati e che c’è ancora un monastero, arroccato lassù, a vegliare su di loro, anche se esitano ad andarci perché non è proprio chiaro se, e quando, i monaci ricevano.
Mi incammino una mattina presto, la strada che porta lassù si inerpica tortuosa all’ombra di alberi e rovi; oltre i rami si intravedono fattorie, alcune con muri crollati e stalle con agnellini appena nati, bianchi, neri o pezzati. Tutto è pace e silenzio finché in cima, ad una svolta, appare uno spiazzo con qualche macchina e i soliti container che punteggiano i prati, un orto coltivato e un pollaio con le galline…
Ed ecco il monastero, che un tempo sembrava così malridotto e ora invece è al passo con i tempi: una tenda rossa sbiadita dalla pioggia ne chiude l’ingresso, sotto il portico: un tavolo e delle sedie. Poco discosta c’è la chiesa prefabbricata in legno, e affianco una fila di casette dove probabilmente vivono i monaci, attorno cielo e cime di monti e qualche fedele che si affretta su per la salita.
Entrando, abbagliata dalla luce che filtra dalle vetrate finte ma belle, verdi, azzurre e rosse, mi sorprende l’atmosfera formale dell’interno così diversa dall’ambiente frugale che avevo, magari a torto, immaginato.
Un inginocchiatoio divide lo spazio in due metà: una è per gli officianti, nell’altra i pochi banchi sono occupati da donne con il capo velato, uomini impettiti e ragazzi alti e ben vestiti, tutti immersi in una devozione assoluta mentre i monaci sfilano lungo le panche addossate al muro, intonano i canti ed eseguono i riti con forme perfette. Alcuni hanno il saio scuro, altri l’abito bianco, altri ancora i paramenti di color verde, tutti hanno la testa rasata e la barba come nella statua del santo.
Dal posto in prima fila, dove incautamente mi sono seduta, cerco di seguire il rito, ma mi distraggo ad osservare le barbe così curate – fanno parte anch’esse delle regole del santo? – e i gesti studiati che trasmettono un certo gelo non fosse per il calore della luce dorata che filtra dalle vetrate e si confonde con l’incenso che un monaco spande attorno con un cenno lieve del capo.
Per la comunione i fedeli si inginocchiano e tengono sollevata con le mani la tovaglia poggiata sull’inginocchiatoio, noto una signora giovane vestita di nero, con i capelli biondi raccolti sotto il velo, che mi lancia occhiate di fuoco forse per il mio abbigliamento poco festivo o per l’assenza del velo. Si trascina dietro un bimbetto che tace terrorizzato dal suo austero fervore. È bella, come sono belli i ragazzi, una bellezza da cui trasuda severità e rigore.
Ogni tanto suona la campana, montata all’esterno, come nella piazza del paese, su una struttura di legno e fa un bel suono.
Ora che la funzione è finita, insieme alla tensione del rituale, e i fedeli sciamano verso l’uscita, seduta sulla panca contemplo la luce che danza con l’incenso e i fiori gialli sul fianco della montagna che occhieggiano semplici e umili dalla vetrata aperta. I monaci seduti sulle panche guardano il tabernacolo abbandonati, stanchi, ma paghi sembrano del loro canto, c’è una sospensione nell’aria, un mistero divino e ineffabile che riempie il cuore di immenso.
Sto così bene che non mi accorgo che, di qua dall’inginocchiatoio, non c’è più nessuno e i monaci mi stanno fissando smarriti, qualcuno con severità ostile. Cosa ci faccio, in prima fila, ora che è finito il rito? Salto su, accenno un gesto di scusa, e filo via, mi sembra di vederlo, alle mie spalle, il sollievo sui loro volti.
All’uscita uno dei ragazzi sta parlando con un monaco, colgo frammenti, parlano in inglese, il ragazzo dice che è già stato qui, forse per aiutare a ricostruire il convento, il monaco sorride e dice: “enjoy”, poi il ragazzo in silenzio si allontana e scompare dietro la tenda rossa sbiadita dalla pioggia.
Quel Dio, quel mistero, anche la ricostruzione del convento, è solo per loro e noi ne siamo scacciati, non riesco a pensare ad altro, mentre mi avvio giù per la discesa.
Un pomeriggio però torniamo, per i Vespri, io e il mio amico: non ho messo il velo, ma siamo venuti in macchina e non ho più l’aria di viandante allo stremo. Al mio amico, venuto da lontano, piace arrivare molto presto, così siamo in anticipo e mentre percorriamo a piedi l’ultimo tratto dell’erta salita, un monaco incappucciato, apparso da chissà dove, ci sbarra il passo e, timido, spaventato più di noi, ci invita ad allontanarci e a tornare tra mezz’ora. Nell’attesa decidiamo di fare un giretto nei dintorni, tra gli alberi e gli arbusti occhieggia in lontananza una bella Country House Luisa, come recita il cartello. A vederla dal sentiero sembra intatta, c’è anche un cagnetto che gironzola e annusa ogni cosa, grandi tavoli di legno all’aperto e una vista meravigliosa sulla valle, ma c’è uno strano silenzio e, ora che ci avviciniamo, appaiono le ferite che le scosse hanno inferto, niente da fare: la Country House è spacciata.
Lentamente torniamo sui nostri passi e, sebbene ora nessuno ci sbarri la strada, l’assenza di vita o di tracce umane ci fa sentire a disagio; ci infiliamo nella chiesa deserta, alle nostre spalle sentiamo entrare i ragazzi ospiti e da ultimo, davanti a noi, oltre l’inginocchiatoio entrano sfilando i monaci.
L’atmosfera è più austera e triste, ora che dalle vetrate non si diffonde la luce intensa del giorno, il monaco di poco fa, quasi a farsi perdonare, si avvicina a indicarmi i canti sul messale. Io lo ringrazio e seguo le parole, ma non riesco a ritrovare il soffio del divino e a sentire le gioie della sera.
Terminata la funzione in un istante non c’è più nessuno. Scomparsi tutti in fretta: i ragazzi dietro le tende stinte, i monaci oltre le loro porte e noi riprendiamo la strada, nel silenzio sento l’amico, accanto a me, che borbotta: “Che razza di monaci, sembra quasi che il terremoto gli abbia fatto un favore, così finalmente sono potuti fuggire quassù.” – E’ quello che mormora anche la gente in paese.
Io ricordo l’abate di un tempo, veniva dalla Cecoslovacchia e la regola dell’Ora et Labora la viveva in altro modo: era sempre in giro per le strade, a dare una mano nelle campagne; padre Cirillo si chiamava e non si sognava di sbarrarti la strada.
Questi monaci americani la gente vorrebbe averli tra loro, poterci parlare ora che le chiese sono crollate, vorrebbe magari anche vederli lavorare a tirar su qualche casa, e invece niente: “Non vogliono che ci avviciniamo, producono la loro birra artigianale, pregano in latino e hanno tanti soldi.”
Sussurri, mormorii: pare che l’abate sieda nel Consiglio di amministrazione della società di Cucinelli – a che serve un abate in un Consiglio di Amministrazione?
Si dice che siano in guerra con il vescovo di Spoleto, anche contro di lui la gente mormora, anche da lui si sentono abbandonati: ha spostato cresime e comunioni a Spoleto: “Ma come: ci levi le comunioni e le cresime che portano soldi…”.
I fondi per ricostruire la Basilica verranno dall’Europa e lui ha dichiarato che farà una ricostruzione spettacolare, magari con gli effetti speciali. Ma non sarebbe meglio allora tenersi i tubi Innocenti?
Che confusione in testa! Ed è un peccato perché ora al tramonto l’aria è azzurra, quieta e serena, una striscia di rosa è apparsa sulla cima dei monti.
“Guarda quante more!” – esclama il mio amico: alla svolta della strada, all’improvviso, sono apparsi cespugli carichi, forse la regola dei monaci americani vieta la raccolta dei frutti di bosco?
Se è così… svuotiamo una bottiglia dell’acqua e la riempiamo di more: era uno dei nostri passatempi preferiti quando eravamo bambini. Una delizia questi piccoli frutti scuri, che si sciolgono in bocca, è un conforto scoprire che hanno resistito al terremoto.
Con la bottiglia piena imbocchiamo il sentiero della Country House Luisa deserta e ci sediamo sulle panche di legno a mangiare. Lo sguardo spazia sulla valle, sull’infinito azzurro del vespro, sugli agnelli bianchi, neri e pezzati che parlano del mistero della vita che rinasce.
“Vescovi e abati non capiscono… mmm…” borbotta ancora il nostro amico, ma ha la bocca piena e il resto non lo sentiamo.
Immagine di copertina. Dylan Dog per Castelluccio di Norcia
[Norcia, in attesa di ricostruire (4) – Continua]