- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

Norcia, in attesa di ricostruire (3)

di Vittoria Tedeschi
[1]

.

La pizzettaia

Stasera scendiamo a Norcia a comprare le pizze, ha piovuto e fa freddo così ci siamo infilati vecchi vestiti trovati nei cassetti: maglioni slabbrati e giubbotti passati di moda e come viandanti camminiamo nel buio finché davanti alle mura vediamo la luce. E’ la pizzeria che ci hanno raccomandato: una delle poche attività che non ha delocalizzato “causa sisma”, ma è rimasta dove era, accanto alla farmacia chiusa con i calcinacci sulla soglia.
Le pizze a portar via, dicono, sono molto buone, costano nulla e l’unica differenza, dopo il terremoto, è che sono molto più grandi.

E’ un sollievo, dalla strada buia e deserta, entrare nel negozio che è spoglio, ma ha un buon profumo e c’è una signora dietro il bancone che ci sorride mentre serve un cliente con gesti precisi e assorti.
Siamo io e mia figlia, gli amici sono chiusi nella casetta agibile a guardare le partite, nella lista delle ordinazioni hanno scritto supplì, fiori di zucca e margherita con mozzarella di bufala, e ora che la leggo mi sento un’idiota vedendo il dispiacere negli occhi della signora che, da dietro il bancone: scuote la testa, la rattrista dover dire di no ad ogni richiesta, i supplì li hanno fatti fino a ferragosto, ma ora non hanno più ingredienti, allora mia figlia mormora: – Io vorrei a margherita semplice, la fate?
– La margherita sì – dice e ci guarda con occhi grandi e dolci, pieni di gratitudine, come fossimo un vecchio film visto in giovinezza che la commuove, ricordi perduti e ritrovati, bellissime con i nostri scarponi, i maglioni allentati e i pantaloni macchiati d’erba.
Io invece non mi ricordo di lei, non venivo mai a prendere le pizze, e in un sussurro , quasi a scusarmi per aver ordinato mozzarella di bufala tra le macerie dico: – Noi veniamo qui da sempre.
– Lo so – risponde – lo so -, gli occhi colmi di tenerezza e di antiche visioni.
– Le vostre “margherite” saranno pronte alle 9.

Ci sottraiamo a quel suo sguardo così caldo, usciamo nella strada deserta e varchiamo le mura, è l’ora in cui in giro non vedi nessuno, pochi vivono dentro il paese, e ora sono a cena nelle casette, nelle roulotte, e ovunque di notte ci si senta al sicuro, perché di giorno stai bene ovunque, ma di notte vuoi essere sicuro di poter fuggire in fretta, e anche di giorno non sono in molti a transitare in paese, più gli uomini delle donne: – In quelle chiese ci siamo sposati, abbiamo battezzato i figli, non riusciamo a vederle così ridotte – vengono per qualche faccenda e scappano via in fretta.
Qualcuno verrà più tardi per il concerto in piazza, con le sedie per il pubblico disposte sotto gli occhi del santo che però guarda altrove, e le luci del palco che si confondono con le stelle e allora è più facile credere che nulla sia successo.
Alle nove torniamo in fretta cercando la luce nel buio come viandanti di un tempo la luce dei conventi.

E di nuovo quello sguardo, pieno di gratitudine, ad accoglierci mentre altra gente entra e chiede i supplì che non ci sono, ma la gente è contenta lo stesso, perché trova un’atmosfera di casa, un rifugio, una pace.

– Come va? – chiedo quando restiamo sole, noi e lei, tanto per dire qualcosa perché non è facile essere la bella visione di un altro.
Va – sorride mentre spala due pizze e le mette nei contenitori di cartone.
– E ora dove abitate? – dico per dare parole al suo sguardo.
– Dentro Norcia
– Dentro? – ripetiamo sorprese perché dentro non è tornato quasi nessuno. E la domanda sottintesa è: non avete paura?
Si stringe nelle spalle. Bisogna pur vivere e dare conforto.

[2]

Ora si cominceranno a ricostruire le “B”: le case con danni lievi.
Gli ingegneri di Foligno che esaminano le richiese e i progetti bloccano tutto se per caso c’è un piccolo errore, una non corrispondenza. Se, nell’emergenza, chiudi un occhio, gli abusi e i rischi crescono, e con quello che è successo non è davvero il caso, se non li chiudi e sei puntiglioso ci vogliono anni per costruire. Potresti aumentare il numero degli ingegneri che esaminano le pratiche, sarebbe lavoro in più, la famosa economia che gira, gente competente assunta all’uopo.

Ma questi sono i discorsi che fanno gli altri, lei dice solo: – Non si muove niente e la gente ha bisogno di un poco di luce, di conforto – sorride e apre la bocca del forno a controllare.
– Siamo tornati solo io e mio marito – che proprio ora si affaccia dal retrobottega con il grembiule bianco, un ormone che te lo immagini a sostenere piloni con una mano.
Mia figlia neanche ci entra a Norcia, non ce la fa e io non la forzo, d’altronde… non è morta.
Non vuole suscitare la nostra curiosità, sembra rincorrere un pensiero che ha in testa .
– Perché non vuole entrare? – chiede mia figlia.
Lei richiude la porta del forno con gesti morbidi a cui sembra che un tempo millenario abbia tolto ogni urgenza. Guarda a terra come se avesse perso qualcosa.

– Noi c’eravamo quella mattina… – ora con il mento indica un punto nel buio là fuori – io, mia madre e mia figlia e abbiamo visto cose che uno non può capire, palazzi che si aprivano e si vedeva dentro e le strade erano come onde del mare, si alzavano e si abbassavano.
La mano imita il gesto lentamente, come una danza. Nessun desiderio di impressionare, solo la voce di chi parla da un luogo un poco più in là, dove cose importanti non lo sono più e cose brutte magari sono diventate belle e cose difficili ora sono facilissime.
Forse doveva essere così anche per la gente che si chiudeva nei conventi.

[3]

– Io e mia madre siamo cadute e non riuscivamo ad alzarci – apre il forno, pala e spala. Corpo esile, alta, slanciata cosa ci vuole a rialzarsi da terra, per una donna così? Ma la strada erano onde sul mare e lei non si alzava e allora la figlia si è slanciata a chiamare il padre, ma mentre attraversava la porta secolare un pezzo è venuto giù e le costole le hanno perforato i polmoni e allora il padre è arrivato o la madre da terra si è alzata e un’ambulanza è passata…
E’ un racconto pacato, ma ha una forza che fa male, e noi tratteniamo il fiato, immobili.

[4]

L’unica ambulanza non si può fermare perché hanno un’altra chiamata, e le case si aprono, le chiese crollano, i pezzi della porta hanno bucato il polmone di tua figlia che non respira.
– Ci hanno detto: prendete una macchina e portatela al primo soccorso – (L’ospedale a Norcia lo stavano smantellando già da prima e il terremoto ha solo accelerato la pratica).
Una macchina arriva, non sai in quei momenti da dove vengono le cose, ma al primo soccorso sono tutti sul piazzale, la gente è terrorizzata; gli infermieri dicono che se non respira è perché ha un attacco di panico, ma poi nel fuggi fuggi, una dottoressa dice che deve essere operata d’urgenza, l’ospedale è a 50 chilometri, l’ambulanza è tornata, ma la strada si è aperta, non c’è più…

Racconta mentre pala e spala nuove pizze nei cartoni con gesti pieni di grazia. Ci sono massi grossi come uomini e uno scalino enorme, nessuno passa ma i carabinieri trovano il modo di aprire la strada per loro, è tutto un ballare dentro e fuori e i massi crollano e forse moriamo per strada e mia figlia non respira e ha il terrore, ora sì, e in sala operatoria l’anestesia non prende, perché lei non riesce a calmarsi.

La convulsione del racconto è solo dentro di noi, perché la signora parla lentamente attenta a seguire altre richieste.
– Li avete i supplì? – I supplì no – scuote la testa desolata, le dispiace non poter dare conforto alla gente.
– Dopo vivevamo nella roulotte, mia figlia aveva il busto e stava sulla sedia a rotelle, la portavamo in braccio dentro e fuori, ora è viva ma a Norcia non ci viene, vive in un container nel giardino della zia. E’ l’unico posto dove si sente al sicuro. E’ importante che la gente si senta al sicuro”.

[5]

Sorride, gli occhi grandi che hanno visto cose e le braccia che hanno sollevato ogni notte la figlia: – No mamma non è il panico – ripeteva lei quella notte.
Quelle braccia ora hanno voglia di lavorare, come tante braccia di qui. Lavorare dà e offre conforto.

Ce ne andiamo con le nostre braccia coperte di incarti di pizza e i maglioni slabbrati e lei ci guarda da dietro il vetro.
Sotto il suo sguardo ci sentiamo al sicuro, siamo parte di un mondo fatato, e lo è anche lei con i suoi gesti lenti, i suoi occhi grandi, le mani che aprono il forno e lo chiudono.

Si cucina con quello che c’è, e si vive dove si può, senza forzare la mano purché nella notte una luce resti accesa.

 

Immagini. Il terremoto nei disegni dei bambini. Da Serena Nannini: “Il disegno infantile e l’esperienza traumatica del terremoto”; In “Psicoanalisi neo freudiana” – International Foundation Eric Fromm
www.ifefromm.it/rivista.php [6]

 

[Norcia.3Continua]

Per la prima parte, leggi qui [7]
Per la seconda parte, leggi qui [8]