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Thalatta, tra isole e terre sconosciute fonte di vita e veicolo di cultura per i naviganti di Pithecussai

di Isabella Marino

 

Pubblichiamo l’articolo che ci è stato segnalato in Redazione, ripreso integralmente da www.quischia.it [1]

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Giungevano sempre dal mare. Guidati dal sole e dalle stelle verso l’isola accogliente. Approdo sicuro prima di altre partenze e di altri arrivi. Luogo dì incontro, di contatto e di scambio con altri popoli, altri usi, altre culture. Senza porsi limiti, oltre quelli frapposti dalla natura, che pure cercavano di superare.
E proprio il mare, nonostante le sue insidie, era il  loro principale alleato nei grandi viaggi verso altri luoghi conosciuti o ancora ignoti, nei trasferimenti per fondare nuove città, negli intensi traffici che procuravano benessere e nella diffusione di nuove conoscenze, abitudini, idee.
La grande strada che congiungeva la loro isola alle terre visibili all’orizzonte e ancora oltre. Comprese le altre isole, da cui traevano materie prime fondamentali per alimentare le loro industrie e i loro commerci.
Del resto, era per questo che l’avevano scelta fin dalle epoche più remote: per la sua posizione speciale nel grande mare, ideale per collegare luoghi e popoli che avevano bisogno di comunicare fra loro.
E così nell’antichità l’Isola divenne crocevia fondamentale nel Mediterraneo.
Una storia plurimillenaria di contatto col mare, ripercorsa nella narrazione accattivante e coinvolgente di “Thalatta e Nostoi: storie di uomini di mare”, la recente conferenza dell’archeologa Mariangela Catuogno, in collaborazione con l’Associazione Archeologica presieduta dall’archeologa Maria Lauro.

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Il loro contributo all’evoluzione culturale delle popolazioni del mondo antico le isole cominciarono a darlo fin dal V millennio a.C., quando genti venute dal mare cominciarono a considerarle luoghi favorevoli per insediarsi.
A far luce sui rapporti tra le isole in quell’epoca remota si dedicò giovanissimo Giorgio Buchner, che compì studi e ricognizioni alle Eolie, nelle Isole Pontine e nell’Arcipelago Partenopeo, tra Ischia, Capri e Vivara. E in quegli anni cominciò ad inquadrare il ruolo di Ischia nella circolazione di beni in età preistorica tra le isole vicine, che costituivano un “network” come l’ha definito Catuogno, e la terraferma.
Le ossidiane esposte nel Museo di Villa Arbusto a Lacco Ameno, per esempio, sono associate alla ceramica di Serra d’Alto di Monte di Procida e consentono di ricostruire un circuito che aveva i suoi riferimenti nell’isola di Palmarola, dove si estraeva l’ossidiana, che poi veniva lavorata nella vicina Ponza e da là trasportata a Ischia, da dove partiva verso Monte di Procida, lo scalo sulla terraferma.

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Dal 1500 a.C. furono i Micenei a fare base sulle isole del golfo, da cui interagirono con altre civiltà.
Vivara, dov’era l’insediamento miceneo allora e anche in seguito, tra il 1400-1300, era parte del circuito di commercializzazione  e diffusione di beni di lusso in Occidente.
L’isolotto era punto di partenza di prodotti per la popolazione indigena del Castiglione  a Ischia, dove furono ritrovati dei grandi “dolia”, i contenitori presenti anche nei palazzi micenei. Attraverso il grande mare si trasferivano merci, e con esse modelli di vita, da oriente verso occidente.

A fissare le tappe di un percorso snodatosi attraverso i millenni sono i reperti, da cui l’archeologia attinge le informazioni e i riferimenti necessari alle sue ricostruzioni. E dunque la cosiddetta Coppa di Exekias (il ceramista che l’ha firmata), conservata a Monaco di Baviera, accompagna alla grande barca a vela nera che giganteggia nel mare rosso la figura di Dioniso, sdraiato a bordo.
Il dio del vino, protagonista del Simposio, simbolo della grecità, che attraverso il mare si diffonde e si trasmette in altri luoghi ad altri popoli. Il mare che, annullata ogni barriera, diventa corsia preferenziale per incontri e relazioni in cui i greci portano un elemento particolarmente significativo e caratteristico della loro cultura. Così nell’Odissea, Omero descrive “il mare color del vino”, mettendo in relazione il navigare con la diffusione dell’identità greca, che nei contatti con le altre popolazioni è testimoniata e rappresentata proprio dal vino con le sue profonde implicazioni culturali.

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A raccontare storie di naviganti nell’antichità contribuiscono due straordinari reperti pithecusani. Uno di essi, il meno noto, anzi misconosciuto ai più, è il frammento di un cratere di produzione locale databile alla fine dell’VIII secolo a.C. All’esterno ha una decorazione a farfalla o a doppia ascia tipica della ceramica corinzia. Ma ciò che lo rende speciale è l’incisione all’interno che raffigura la costellazione Bootes, citata da Esiodo ne “Le opere e i giorni” perché i marinai  la seguivano durante la navigazione e i coltivatori per la potatura delle viti.
Del resto, il cratere è il vaso in cui si prepara il vino per il simposio, oggetto di uso quotidiano che l’autore dell’incisione volle collegare all’arte della navigazione e al mare, che rappresenta anche l’altra vita dopo la morte.
Il cratere Bootes, che forse recava incise anche le altre costellazioni note e utilizzate dai marinai, era una sorta di carta nautica, rivelatrice delle notevoli conoscenze astronomiche che i naviganti pithecusani possedevano già dall’Eubea e che avevano poi arricchito grazie al contatto con i fenici, cofondatori di Pithecussai. Un piccolo pezzo di ceramica, dunque, senza paragoni e pieno di significati, giacchè sintetizza gli alti livelli di conoscenza e di elaborazione culturale con cui anche i greci di Pithecusa si erano presentati e caratterizzati nel dialogo con le altre comunità.

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Dal cratere di Bootes al cratere del naufragio, altro pezzo di enorme pregio del patrimonio storico-archeologico della nostra isola che, ritrovano nella necropoli di San Montano, non faceva parte però di uno specifico corredo funerario.
Risalente anch’esso alla fine dell’VIII secolo, è uno dei due soli vasi greci che raffigurano scene di naufragio. L’altro si trova a Monaco. Quello pithecusano dimostra, tra l’altro, un’ottima conoscenza del mondo marino, visto che vi sono illustrati ben 46 diversi pesci. Di grande forza drammatica, sono le sagome dei marinai morti, uno dei quali ha la testa serrata nell’enorme bocca di uno squalo.
Quando fu scoperto, nel 1954, Buchner lesse in quel dramma la volontà del ceramista pithecusano di esorcizzare la paura della morte per mare senza sepoltura, che equivaleva a vagare per l’eternità.
Coevo alla diffusione dell’Odissea nell’ultimo quarto dell’VIII secolo, il vaso potrebbe evocare proprio, come ha sottolineato Catuogno, i nostoi, i ritorni pieni di pericoli e difficoltà degli eroi della guerra di Troia.  Il che evidenzierebbe il ruolo giocato da Pithecussai nella diffusione delle opere omeriche.

Altri riferimenti alla tradizione marinara dei pithecusani si trovano nel corredo della tomba 1087, che comprende ami e pesi per la pesca  a tramaglio, conosciuta e praticata già 2700 anni fa. E ci sono poi le barche della Stipe di Pastola, oggetti votivi sacrificati alla dea Era, venerata come divinità della buona navigazione anche in Eubea, nel santuario di Perakora.

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E poi c’è il corredo della cosiddetta Fattoria di Punta Chiarito, dove è stato ritrovato un set da banchetto con tutti gli oggetti utilizzati per mescere il vino durante il simposio, oltre ad oggetti per la pesca, tra cui ami e pesi per le reti. Ma chi erano allora gli abitanti di quella casa, peraltro inserita in un comprensorio con altre abitazioni? Semplici contadini, ricchi proprietari che lì avevano la casa di campagna o altro? Per don Pietro Monti poteva trattarsi di pirati e quegli oggetti di lusso potevano essere il bottino di atti di pirateria. Che erano piuttosto usuali nel mondo antico, dove tutti i marinai assalivano le navi ostili per impadronirsi del loro carico. La pirateria era parte integrante di un’economia di sussistenza, che sfruttava tutte le risorse possibili sia a terra che a mare.

L’epoca ellenistica vide un forte incremento dei rapporti con la Spagna, che già nell’VIII secolo intratteneva relazioni commerciali con trovata a Pithecussai, testimoniato dalla  ceramica isolana ritrovata a Huelva. All’epoca  ellenistica appartiene la ceramica spagnola – ampuritana e “sombreros de capas” – soprattutto recipienti per trasportare il miele.

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E sempre con la Spagna intratteneva rapporti commerciali Aenaria, attraverso la plumbaria di Gneo Atellio che importava i metalli da lavorare dalla Penisola iberica. Ancora in età romana l’isola è un riferimento importante nella rete dei commerci  via mare che  ha il suo fulcro nel porto di Pozzuoli, il porto di Roma, tra i principali scali del Mare Nostrum. Dove fervono non solo gli scambi commerciali, ma anche quelli culturali tra Roma e le popolazioni rivierasche. Un ruolo, quello di Aenaria, che sta ancora emergendo dalla ricerca archeologica in corso in questi ultimi anni. Purtuttavia, è già evidente quanto la cultura è stata centrale nel rapporto tra gli isolani e il mare nelle diverse epoche storiche, nell’antichità. Mare che ha unito, oltre ogni differenza e particolarità. Mare che ha facilitato contatti, relazioni, conoscenza. Mare che ha realizzato sogni e donato opportunità. Oltre ogni barriera. Guidati dal sole e dalle stelle verso vecchi e nuovi approdi.

 

Immagini: da www.quischia.it [1]