Arte

La canzone per la domenica (2). Una delle mie preferite

proposta da Sandro Russo

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“Ci dev’essere stato un giorno in cui tutto è cambiato,
il mondo ha voltato pagina, e non ce ne siamo accorti.
Mi interessava isolare, fermare un momento storico come questo”.

(Paolo Conte)

Propongo per il giorno di festa di goderci una in particolare tra le molte belle canzoni di Paolo Conte.
Non una novità, accolta con grande successo all’uscita, sentita e risentita, e in effetti geniale, per le parole e l’atmosfera che evoca; per la musica e l’arrangiamento e, non ultimo, per il video che l’accompagna.
Sto parlando di Novecento, di Paolo Conte.

Tra l’altro… cosa mai avrà avuto di così speciale il ’900, da accendere in tal modo la fantasia?
Dal momento che ha stimolato la genesi del film Novecento, del 1976 diretto da Bernardo Bertolucci.
E Novecento – Un monologo, un pezzo teatrale di Baricco (pubblicato da Feltrinelli nel 1994), da cui il pregevole film La leggenda sul pianista sull’oceano di Tornatore (del 1998).


Tra essi si inserisce – tutt’altro genere, ma pari dignità artistica – nel 1992, la canzone di Paolo Conte che dà il titolo all’album; curiosamente in numero, ’900, non in lettere, pubblicato dalla CGD in formato Lp, Cd e musicassetta.

Testo complesso, fruibile a diversi livelli, in cui, dal punto di vista della scomposizione semantica, dobbiamo tener conto dei tre tempi: il 1992, in cui è stato scritto; il periodo cui si riferisce, ovvero il secolo folgorato al suo esatto inizio, e – non ultimo -, il giudizio complessivo a distanza sul periodo storico, per quanto possiamo dire noi ascoltatori di 36 anni dopo; noi che ci guardiamo indietro dal XXI secolo.
Il ’900. Un secolo di sterminate promesse, tecnologiche e di benessere sociale, cui hanno fatto da contraltare le peggiori disillusioni: ricordiamo il naufragio del Titanic (nella notte tra 14 e il 15 aprile 1912); l’affermarsi di tre regimi dittatoriali maggiori (in Spagna Italia e Germania) e due guerre mondiali: esperienza mai fatta prima dall’umanità (con gli stermini della prima, gli eccidi e l’abominazione della seconda); la pandemia di “spagnola” (fra il 1918 e il 1920); la stessa bomba atomica.

A tutti gli effetti un secolo “monstre” di cui in tempi più recenti noi stessi abbiamo vissuto gli ultimi anni… Come non esserne profondamente coinvolti?

Proviamo a riviverlo in modo “poetico” sulle note a tempo di valzer, con influenze jazz e perfino rap, di Paolo Conte e del suo ensemble di 16 eccellenti musicisti. Con un testo ‘prezioso’, che strizza l’occhio ai surrealisti e alle allitterazioni dei futuristi.

Guarda e ascolta qui il video da YouTube:

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YouTube player

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Novecento

Dicono che quei cieli siano adatti
ai cavalli e che le strade
siano polvere di palcoscenico

Dicono che nelle case donne pallide
sopra la vecchia «Singer» cuciano
gli spolverini di percalle,
abiti che contro il vento stiano tesi
e tutto il resto siano balle,
vecchio lavoro da cinesi… eh… eh…

Dicono che quella vecchia canzoncina
dell’ottocento fa sorridere
in un dolce sogno certe bambole
tutte trafitte da una freccia indiana,
ricordi del secolo prima, roba di un’epoca lontana,
epoca intravista nel bagliore bianco
che spara il lampo di magnesio
sul rosso folle del manganesio… eh… eh…

Indaco era il silenzio e il Grande Spirito,
che rallentava la brina, scacciava
i corvi dalla collina…
come una vecchia cuoca in una cucina
sgrida i fantasmi dei buongustai
in una lenta cantilena…

Lasciamo stare, lasciamo perdere, lasciamo andare
non lo sappiamo dov’eravamo
in quel mattino da vedere… eh… eh…

Dov’eravamo mai in quel mattino
quando correva il Novecento
le grandi gare di mocassino…
lassù, sul palcoscenico pleistocenico,
sull’altopiano preistorico
prima vulcanico e poi galvanico…
dicono che sia tutta una vaniglia,
una grande battaglia,
una forte meraviglia… eh… eh…

Galvanizzato il vento spalancava
tutti i garage e liberava grossi motori entusiasmati…

la paglia volteggiava nell’aria gialla
più su del regno delle aquile
dove l’aereo scintilla…
l’aereo scintillava come gli occhi
del ragazzi che, randagi,
lo guardavano tra i rami dei ciliegi… eh…eh…

 

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