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I ritorni: pause salutari nello scorrere dell’esistenza

di Francesco De Luca

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L’isola è luogo d’elezione. Anche.

Quando si sceglie di seguire il richiamo che da un luogo riposto dell’intimo preme affinché la vita ritrovi l’andamento della fanciullezza, del parlare in dialetto, del pensare col cuore, si ritorna all’isola. Per ritrovare la sicurezza della placenta fetale.

Il cosmo isolano appare terso, lineare, primitivo. La vita non segue la tirannìa del tempo. E’ questa la prima piacevole sensazione. L’andare dei giorni si palesa come un bambino: dispettoso, gioioso, lieve. Non comanda, invita. I rintocchi dell’orologio della piazza trovano l’animo impreparato ma disponibile. Sempre in ritardo.

E il ritorno si adagia sull’ozio, sull’aleggiare fra le incombenze dell’attualità. “Saie niente… Veruccio è caduto mentre veneva da ‘u Fieno. Era strafatto a vino…”
“E’ cuntenta ‘a mugliera… accussì fenesce ‘i se ruvinà ‘u fecate”.

Poche sono le ricreazioni piacevoli come quella in cui si partecipa alla merenda nelle grotte-cantine del Fieno. Le amicalità, gli aneddoti, gli sfottò, le finte ripicche, le battute spinte sono sempre accompagnate dal vino.

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Si comincia con quello dell’anno in corso, per valutarne la bontà. E poi occorre paragonarla con quella delle annate precedenti. “Sì… ricordo però che avevi un rosso dolcetto e frizzante…”.

Anche quello viene versato nei bicchieri, e si finge di accompagnarlo ai bocconcini di tonno sottolio, che Giovanni vanta tanto. Lo si assaggia giusto per trangugiare altro vino.

Aniello intanto si è allontanato. Sta seduto sotto il castagno e sembra osservare il mare che si rompe sulla sagoma di Palmarola all’orizzonte.

In verità Aniello sta dissodando l’animo dai sassi della sua pesante esperienza professionale. Il Policlinico gli presenta ogni giorno patologie sulle quali intervenire chirurgicamente. Tanto è entusiasmante mettere le mani nell’ordito dell’organismo umano quanto è deprimente constatarne la fragilità nei confronti del disordine della malattia. Che devasta la carne e la mente.

Isola, oasi di quiete. Come quella che si respira sulla collina della Madonna.

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“Sono venuto per salutare i miei. Stanno vicino alla cappella Sandolo. Tutti e due insieme, come li ho sempre visti. Bada ‘a casa… figliu mio – mi raccomandò mio padre.

La casa… oggi in balìa dell’umidità e dell’incuria. Come tutte le cose in disuso – si confida l’amico. Ma per i miei la proprietà era un bene da essere sottratto all’insulto del tempo. Perché era stato frutto di fatiche e sacrifici: un guadagno al quale avevano dedicato la vita. E la casa la si teneva da conto come un tesoro, e quando venivo in vacanza erano fieri di mostrarmi le novità. Fondendo l’amore con quanto potevo toccare e vedere.
Oggi vedo la rovina avanzare, ma il mio sentimento si irrobustisce, diviene esplosivo. Incontenibile come il pianto”.

O come la gioia. Quanta grande era nell’immergersi nelle acque del Calzone Muto. Di fronte a quella grotticina erosa dalle mareggiate. Lì dove il mare per la presenza degli scogli al di sotto appare perlaceo. E i dient’i cane graffiano, se soltanto li sfiori. Lì dove l’estate diventa la tana, custode dei ricordi della dolcezza.
“Perché fra quelle acque abbracciai il corpo delicato di una donna. Morbida e accondiscendente” – ricorda Antonio, ora canuto.

L’isola è luogo di verità. Ti spoglia degli orpelli sociali. Mostra la fattezza della tua nudità umana. Sei quello che appari e presenti la natura nella sua nettezza. Se si accetta la rudezza di tale rivelazione la permanenza sull’ isola non è grave, perché essa mette alla prova le tue qualità. Se è eccessivo lo sforzo di reggere l’autenticità del proprio essere, allora la si abbandona. Disprezzandone le limitazioni. A voce. Nell’intimo però anelando a tornare, perché la prova è di quelle per cui ci si sente vivi.

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Le ristrettezze esaltano gli spiriti sicuri. I ritorni sono cercati talvolta per sentirsi pronti a fronteggiare il confronto con se stesso. Senza gli scudi delle considerazioni sociali, senza le armature dello status, del ceto.

L’isola è scuola di comportamenti. Non solo di quelli positivi, bensì anche di quelli dispotici, arroganti, cinici. Non essendoci l’alter sociale che sberleffa o mette alla gogna, l’uomo si sente in grado di manifestare ogni velleità. Oppure ci si annulla nell’ ignavia. Il vento passa sui capelli degli anni, li scompiglia, li dirada mentre l’uomo è contento di vederne gli effetti fra i ramoscelli del pesco.

Gli anni si sono sfatti ma la bellezza dell’isola non cambia. Fra le ginestre che profumano tenti di salire in groppa sull’asino di Totonno. Come quei bambini. L’asino paziente, i bambini ossessivi. E tu. Uguale e diverso. Cresciuto e infante. Volioso e pago.

Si ritorna anche se non ci si è mai allontanati.

’U mare va, ’u mare vene,
mo te fa lieggio
e mo te preme.

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