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Nel segno delle donne (1)

di Pasquale Scarpati
[1]

 

A mia moglie

Scendo lentamente le ripide scale che portano al “Salone Margherita”. Ogni tanto mi appoggio al corrimano di ferro, un po’ vecchio, che corre lungo la parete. Quasi vacillo.
– Stai bene? – Mi chiede, un po’ preoccupata, colei che da più di nove lustri, pazientemente, mi accompagna.
– Non è nulla – le rispondo accennando ad uno stanco sorriso.

In realtà l’emozione è forte.
In quelle scale mi rivedo bambino quando, in maglietta leggera e pantaloncini corti, mi sedevo su di un loro gradino, dalla metà in giù e su di un lato, aspettando e sperando che Compare Barbette, nei momenti di pausa, si affacciasse e mi chiamasse con un cenno della mano per farmi entrare nella sala cinematografica. Speravo che vi fosse lui a staccare i biglietti, perché la “comare Maria” non era così benevola ed anche perché mi vergognavo un po’ di lei anzi mi intimorivo. Così, qualche volta, accadeva che dopo avere atteso un po’ di tempo e dopo avere constatato che nessuno si affacciava, a malincuore andavo via.
Quanto mi piaceva andare a cinema! Soprattutto quando si proiettavano film di costume: i colossal come Ben Hur, ed I dieci comandamenti, le storie della Bibbia, le storie di Roma, le storie dei nerboruti Ercole, Sansone, Ursus e Maciste.
A seguire i film western con le prodezze dei cow boy e della vittoria dei buoni sui cattivi. Per non parlare dei film che inducevano alla risata che fa tanto bene allo spirito e alla salute, nei quali non mancava mai il siparietto di ragazze in calza maglia o con vestiti succinti, dalla bellezza e dalle forme di altri tempi, che facevano bella mostra di sé, facendo aguzzare la vista e la fantasia degli spettatori.
Alla fine di ogni film, però, mi rimaneva sempre un po’ l’amaro in bocca perché mi sembrava che la vicenda avesse ancora dei risvolti da raccontare. Mi chiedevo, infatti, cos’altro sarebbe successo. Forse per questo non mi sarei mai alzato dalla poltroncina.

Per questo non rinunciavo mai a vedere il film più di una volta (allora era consentito) e forse sarei rimasto fino all’ultimo spettacolo. Ma, non avendo orologio, perché in quel tempo oggetto importante e di lusso da portare dopo una certa età, ad un certo punto, avendo avuto sentore dell’ora tarda per quei tempi e per la mia età, a malincuore dovevo andar via.
Nonostante non fosse così tardi, avevo comunque osato sfidare le ire di mio padre nemico della visione troppo frequente dei film e della lettura dei fumetti di qualsiasi genere perché, a suo dire ed anche nel sentire comune, diseducativi.
Li nascondevo, infatti, con la complicità di zia Malvina in un cassetto dell’armadio della camera da letto. Abitava là sulla curteglia con la nonna paterna: nonna Civitella detta nonna “Carlina” per via del marito che si chiamava Carlo, la quale fingeva di non sapere nulla. L’Intrepido con le storie di Buffalo Bill, il Monello e Topolino facevano bella mostra di sé.
Ma più che le storie di Topolino che somigliavano ad un racconto giallo che non mi è mai piaciuto, ero interessato alle vicende di Paperino e di zio Paperone dove la freschezza delle peripezie di Paperino e dei nipotini facevano da contraltare alla taccagneria bonaria del vecchio papero che, pur di risparmiare, le pensava tutte. Forse il fatto di stare dalla parte di Paperino era, in cuor mio, un voler contrastare o contestare il mondo degli adulti fatto allora di “taccagneria” dovuta alla scarsità di denaro e ad altre ragioni. Ne avvertivo l’ironia e dentro di me ridevo di quel sorriso che sale dallo stomaco, rimane dentro diffondendosi, poi, per tutto il corpo.

[2]

La sala era quasi sempre affollatissima specialmente quando si proiettavano i colossal o le pellicole di grande successi. Tant’è che spesso bisognava stare in piedi ed attendere pazientemente in attesa che qualcuno si alzasse e poi precipitarsi ad occupare il posto. Ma quante volte si rimaneva delusi perché una volta raggiunto l’obiettivo si sentiva dire: “Occupato”. Allora, con il cappotto piegato sulle braccia bisognava di nuovo mettersi lungo il corridoio centrale o sui lati appoggiandosi al muro, in paziente e prolungata attesa, ora poggiandosi su una gamba ora su un’altra. Comunque con un occhio si seguiva la narrazione del film con l’altro ci si guardava intorno: era sempre uno stare attenti ed uno scrutare intorno; caso mai….

Una volta avuto il permesso di entrare, il mio posto era nelle prime file, davanti a tutti. Un po’ quale forma di riconoscenza nei confronti del compare poiché sapevo che il costo dei biglietti variava a seconda del posto occupato e quello più indietro aveva un costo maggiore, un po’ come se avessi voluto partecipare più intensamente alla vicenda. Invano mia madre: “Non ti mettere troppo sotto – mi raccomandava – che perdi la vista!”.

Durante l’intervallo alcune persone, grandi e piccini, si affollavano intorno a Menicuccio, comprando ’nu cuppetiéll’ ’i lupini o di arachidi o di semi di zucca (o’ spass’).
Poi, ritornando al loro posto cominciavano a sgranocchiare, buttando a terra le bucce. Alcuni lo facevano già durante l’intervallo, altri si astenevano, rimandando il tutto al buio, durante le proiezione; forse per una sorta di consapevolezza o di rimorso. Fatto sta che durante le proiezione si sentivano vari rumori. Probabilmente, allorché si toccava il fondo del cuppetiello, il dito o la mano vagava in cerca dell’ultimo pezzetto e spesso lo si capovolgeva cercando di sentire nel palmo della mano qualche rimasuglio. Ma il più delle volte questi cadevano a terra, con somma delusione di chi già pregustava l’ultimo “sfizio”. Invano con gli occhi si cercava nel buio e raramente era consentito abbassarsi senza recar fastidio ai vicini Fatto sta che non era raro sentire, nel silenzio della sala un “Sssst”.

I più silenziosi ovviamente erano i fidanzati che, dopo avere inviato la guardia-candela a comprare qualcosa, non avevano sicuramente le mani occupate da cuppetielli vari e fingevano di essere più attenti alla proiezione avendo, invece, le mani ed i pensieri occupati altrove!

Il più delle volte, durante l’intervallo, mi voltavo indietro per vedere se vi fosse qualcuno di mia conoscenza ed osservavo come gli uomini tiravano fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette “Nazionali” con o, il più delle volte, senza filtro e le accendevano con i fiammiferi o i cerini. E quelle altre… – chi non se le ricorda? – le Alfa. Più tremende delle nazionali: ‘nu tuosseche! Non mancava chi preferiva fare le sigarette da sé usando la cartina. Prendeva il pezzettino di carta un po’ piegato, lo stendeva poi spargeva al suo interno un po’ di tabacco e infine, con occhi già vogliosi, pregustanti, univa le due parti con la saliva. Alla fine, forse più soddisfatto degli altri perché aveva generato una sua creatura, accendeva la “sua” sigaretta e beatamente faceva sprigionare volute di fumo verso l’alto. Ma ciò che più mi meravigliava era come i fumatori fossero capaci di far uscire il fumo dalle narici: sembravano i tori infuriati disegnati nei fumetti. Nello stesso tempo dalla loro bocca uscivano parole e fumo. Forse che le parole, molte volte, si disperdono nell’aria come il fumo?
Con il passare degli anni, a dispetto di papà, arci-nemico giurato del fumo, anch’io volli provare quell’ebbrezza. Ricordo che tutto accadde all’inizio della nuova strada panoramica nei pressi della gelateria di Giulio, cedendo alle insistenti “provocazioni” di un amico. I violenti colpi di tosse però non mi fecero smettere anche se dovevo essere oltremodo cauto perché i miei, non essendo fumatori, immediatamente avrebbero avvertito l’inganno. Compivo, però, un “salto di qualità”: non più le “Nazionali” ma le Astor o le Stop che comunque dopo un po’ di tempo e per mia somma fortuna abbandonai del tutto ed immediatamente “senza se e senza ma”.

Compare Barbette ci accoglie sorridendo e ci invita, subito, ad entrare.
Apre prima la porta, poi il pesante drappo rosso scarlatto e con un cenno della mano ci indica dove dobbiamo sedere.

[3]

La sala non è gremita di persone come avveniva una volta ed il brusio è quasi impalpabile. Mi guardo intorno: poco è cambiato se non qualche crepa lungo le pareti ma noto che alcune zone sono delimitate da strisce rosse e bianche. Nessuno è in piedi come avveniva quando si proiettavano soprattutto film famosi e lunghi. Non c’è odore di fumo e tutto sembra asettico come una sala operatoria.
Menicuccio sta lì ma non strilla, non oso chiedere il motivo anche perché non so bene a chi chiedere. Forse, in quest’atmosfera, è preso da timore reverenziale, forse ha perso la voce, forse non ha da vendere nulla o poco delle dolci leccornie di una volta, forse anche lui, pur analfabeta, vende su internet e sta lì in attesa che riceva gli ordini tramite smartphone o tramite altre “diavolerie”, forse…non so.

Nelle file davanti vedo persone per la maggior parte sconosciute. Qualcuno che mi conosce si alza e mi fa un cenno di saluto, ma nello stesso tempo mi fa cenno che di lì non si può muovere. Le poltroncine non sono cambiate ma ovviamente sono un po’ vecchiotte, un po’ bucherellate ma perfettamente funzionanti anche se, quando si aprono, cigolano a causa degli snodi arrugginiti. Mi è stato riservato un posto verso le ultime file, vicino alle porte di uscita. Lì incontro altre persone più o meno della mia stessa età. Alcune le riconosco anzi ci riconosciamo, altre le ricordo vagamente, altre non le ricordo per niente. Qualcuno mi guarda più intensamente ma non ci salutiamo: io timoroso di commettere una gaffe, lui… non so. Mi abbraccio calorosamente con quelli che riconosco e cominciamo a scambiare due chiacchiere. Non li vedo da tanto ma, stranamente, i nostri discorsi cominciano dai fatti più recenti e non vanno oltre come se il nostro tempo si fosse ridotto alle vicende più recenti, quando, invece, si potrebbe discorrere di tutta una vita.

Non riesco ancora a capire il motivo per cui io mi trovi lì né oso chiederlo. Ma, come al solito, non c’è tempo.
Ecco, infatti e all’improvviso, si spengono le luci e sullo schermo appare…

 

[Nel segno delle donne (1) – Continua]