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Che vita, la vita. (1) Tatone e la puteca

di Rinaldo Fiore
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Quando ero in Abruzzo, accanto a noi viveva mio nonno Carlo, “Tatone”, che passava il tempo seduto sulla sua sedia impagliata con in mano la pipa, sia che fumasse sia che fosse spenta e lo sguardo della mente rivolto verso il fuoco e ai suoi ricordi. Il suo tempo era passato ma non se ne era accorto perché, vivendo vicini, gli sembrava che l’orologio si fosse fermato. Con “Tatone” avevamo in comune la scala di casa.

Aveva sposato, forse, in seconde nozze una di Monteferrante, paesino vicino a Castiglione, non amata da nessuno dei figli, piuttosto antipatica anche per me. Non ricordo che fine fece, forse tornò al proprio paese, ma ad un certo momento scomparve dal mio orizzonte. Nonna Elvira invece non l’avevo conosciuta: una malattia se l’era portata via, anni prima, con immenso dolore di papà.

“Tatone”, nonno Carlo, rimase solo in vecchiaia, assistito da zia, la moglie di zio Felice, fratello di papà: zio Felice era venuto a Roma con noi, a cercare fortuna anche lui.
Papà periodicamente inviava a nonno Carlo quanto gli serviva per tutte le sue necessità ma gli si leggeva in viso il dispiacere per non poter far di più, di non potergli stare vicino.
Ogni volta che tornavamo al paese papà trovava da pagare qualche debituccio più o meno grande; pagava senza commenti ben sapendo che assistere un anziano è un grande impegno! Nonno quando vedeva papà si metteva a piangere, memore delle tantissime volte che l’aveva trattato male e perché capiva quanto papà gli volesse bene, ed anche perché era vecchietto!

Nonno, d’estate, quando per le vacanze tornavamo al paese, si metteva con la sedia davanti alla sua puteca e si godeva il passaggio e il saluto dei paesani e la nostra vicinanza: mi chiedeva spesso di andargli a comprare il tabacco ma per me era troppo, anzi ero piccolo e non capivo, e me ne scappavo e poi ci andava Carlo, più grande di me.

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Io mi divertivo a giocare con i ferri che papà aveva lasciato in una cassetta di legno accanto alle scale: ero curioso di conoscere a che cosa servissero e li tiravo fuori dalla cassa per poi rimetterli dentro; questo un paio di volte al giorno. Di amici avevo solo Angiolino, il figlio di “Pricida” con cui passavo quasi tutte le giornate: gli altri ragazzi avevano tre anni più di me e, per quanto fossero amici anche loro, ci frequentavamo di meno.

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La puteca, la bottega di nonno, si sviluppava per lunghezza e nella zona centrale in corrispondenza del fuoco c’era l’incudine, la regina del fabbro su cui si generavano armoniose melodie già di notte, verso le tre, orario d’inizio del lavoro: la mazza batteva il ferro sull’incudine e metallo su metallo nasceva lo spartito delle note. A fianco dell’incudine c’era la forgia. Negli angoli della bottega pezzi di ferro, di ogni genere e grandezza, in attesa di essere lavorati o già pronti.

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Accanto all’incudine e appoggiata al muro c’era la forgia con un gigantesco mantice di pelle marrone scuro: la bocca del mantice si gettava sulla brace ravvivandola al bisogno. Il mantice veniva spremuto perché tirato in basso dalla corda collegata ad un pedale di legno, fisso all’altra estremità: nonno spingeva col piede sin sul pedale di legno e la corda tirava giù il mantice che si sgonfiava buttando l’aria direttamente sulla brace accesa e, in tal modo, il ferro da lavorare si surriscaldava immerso nella brace, e di su e giù ce ne volevano tanti!

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Vicino al fuoco c’era un lavandino annerito pieno di acqua, più nera del carbone, dove nonno raffreddava il ferro caldo e si sentiva lo sfrigolio dell’acqua che diventava vapore all’istante a contatto col ferro, rosso per il calore, e subito dopo si sentiva la mazza che batteva il ferro rosso incandescente sull’incudine, il tutto per formare gli attrezzi dell’agricoltura più vari. Nella parte posteriore della bottega c’era ammucchiato il carbone che con la sua polvere anneriva le pareti e le persone. Mio padre, “Giuseppe de Carlucce” a 12 anni cominciò a lavorare in bottega, invitato da nonno: quando il sonno gli continuava a chiudere le palpebre, la voce di nonno Carlo svegliava le mura …e anche papà. Quando il tempo passò regolò da sé le attività umane e le conseguenti scelte.

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La nostra casa era formata da due piani più la soffitta sotto il tetto, dove dei travi di legno spessi una venticinquina di cm costituivano i pilastri che andavano da un lato all’altro delle pareti e poi su di essi le traverse per le tegole, e sopra le tegole parecchie pietre impedivano che il vento le sollevasse. Le case, compresa la nostra, erano tutte appiccicate a formare un caseggiato continuo fino alle Tre Croci, un pianoro verde, per l’erba che vi cresceva liberamente, dove i paesani svolgevano tutte le attività e si chiamava così per la presenza di tre croci di diversa grandezza, piantate su dei pilastri di cemento.

La legna era una dotazione importantissima per ogni casa: tonnellate di legna erano accatastate fuori casa appoggiate al muro esterno e coloravano la parete: le cataste arrivavano a circa un metro e mezzo e più di altezza. Al piano terra la legna ingombrava ogni spazio e nel sottoscala le fascine ammucchiate cantavano le loro canzoni d’amore appena sfiorate. Quando mamma sentiva scricchiolare le fascine diceva “stanne facenne li cippitilli” e solo dopo parecchi anni capii di che si trattava, e non certo di topi….

Mio zio Attilio “faceva l’amore” con Anna la figlia dei Lonzi, i maggiorenti del paese, che abitavano in una villa a pochi metri da casa nostra, e che non vedevano di buon occhio la loro storia: ma zio e Anna si volevano bene ugualmente. Zio veniva a trovare mamma da casa sua e con la scusa si incontrava zitto zitto, si fa per dire, con Anna nel sottoscala di casa nostra, dove le fascine abbondavano e per stare più comodi si appoggiavano ad esse facendole spezzare. Lo scricchiolio arrivava al primo piano dove mamma capiva che sotto c’erano degli ospiti. Questo era quello che consentivano i tempi e non era poco…

Appena appena la neve consolidava, ogni paesano la spalava davanti casa creando viarelle strette e alte, in rapporto ai due tre metri di altezza della neve, per comunicare con vicini e parenti che, appena potevano, si scambiavano commenti e informazioni incontrandosi.
Per le vie di Castiglione si giocava a “scivolarella” su piccole piste di ghiaccio da noi preparate: ogni tanto i ‘geloni’ procuravano forti dolori alle mani e ai piedi e solo allora mi ritiravo a casa.

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Dalla finestra della cucina ogni mattina guardavo le coste di fronte che si gettavano sulla via nazionale, appena intuita sotto il manto di neve, e percepivo il silenzio che aleggiava nel paese .
La neve ci bloccava per mesi ma la vita scorreva in famiglia, in attesa che il sole spazzasse con forza il manto di neve, annunciando una nuova stagione. A maggio da Agnone, la cittadina del Molise a circa 15 km dal nostro paese, partiva lo spazzaneve e raggiungeva Castiglione liberando le strade, mentre frotte di ragazzi lo seguivano urlando di gioia e giocando a palle di neve.
Sui bordi delle strade filari di mandorli, ciliegi e noci tornavano a nuova vita a primavera, sotto lo sguardo attento di noi ragazzi pronti a raccoglierne i frutti: le prime mandorle acidule e non mature erano per me una leccornia. Noi ragazzi ci riunivamo e andavamo in esplorazione alla ricerca dei frutti di stagione…

Ad Agnone c’era anche l’Ospedale dove i nostri paesani, tempo permettendo, si rifugiavano per curare le proprie malattie.
Agnone è famoso non solo perché vicino al nostro paese ma per via della fabbrica Marinelli delle campane delle Chiese di tutto il mondo.

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[Che vita, la vita (1) – Continua]

Commento di Biagio Vitiello del 14 febbr.

Vorrei ricordare all’amico Autore dell’articolo, e a tutti, che a Ponza abbiamo una campana fusa ad Agnone oltre 20 anni fa, della fonderia Marinelli. Si tratta di una campana in Mi minore del peso di 105 kg, ubicata al Monte Guardia, sul campanile della edicola di San Venerio (santo  patrono dei Fari).
Oggi il manufatto è in rovina perché (da molti anni) è volata via la copertura a causa di una forte tempesta, e da allora non ci è stata consentita di ripararla. Chissà se qualcuno non possa aiutarci, al Comune.

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