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Siamo quello che mangiamo?

di Enzo Di Giovanni
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Il pezzo pubblicato la scorsa settimana a proposito del Sushi Boat Restaurant che verrà inaugurato a Ponza questa estate e altri articoli su un tema affine (leggi qui [2] e qui [3]), mi hanno spinto a qualche riflessione, da profano, sul significato e sul senso della cucina contemporanea.

Se è vero che la cucina è espressione popolare, e per estensione il simbolo primario delle contaminazioni tra culture diverse quando vengono in contatto, di conseguenza la gastronomia diventa luogo eccellente per analizzare i nostri tempi, come una cartina di tornasole.
E’ indubbio che il modo di mangiare sia cambiato molto dall’immediato dopoguerra.
Dai piatti tradizionali nati e ad uso e consumo della pura sopravvivenza, si è passati alla cucina molecolare, sperimentale, alla Ferran Adrià per intenderci, in cui il piatto “doveva sorprendere, creare un’esperienza”, come espressamente dichiarato dal cuoco spagnolo.

In mezzo a queste due espressioni culinarie, con alterne fortune, e continue sinergie, si sono sviluppate svariate tipologie, anche lessicali: basti pensare che la cucina tradizionale è diventata di “territorio”, poi a km zero.

Le sinergie nascono nel momento in cui la cucina, da tipicità territoriale legata ai prodotti del luogo, diventa fenomeno da esportare in un mondo diventato sempre più piccolo grazie ai fenomeni turistici e migratori.
Da qui sono nate contaminazioni sempre maggiori, in cui tradizione e sperimentazione potessero convivere ed anzi alimentarsi a vicenda.

Oggi assistiamo ad un altro fenomeno: la rivisitazione connessa alla presentazione del prodotto. I tempi moderni premono, e quello che conta, in un mondo in cui bisogna apparire e competere con velocità sempre maggiori, è raggiungere più utenti possibili nel minor tempo possibile e con una efficacia comunicativa vincente.

Ed ecco che il cibo diventa quasi immateriale: quello che conta sono le sensazioni associate al cibo, o per meglio dire le evocazioni, proprio perché il cibo prima che mangiato va inserito in un contesto.

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Insomma da “anche l’occhio vuole la sua parte” si è passati a qualcosa che travalica lo stesso occhio. L’utente deve “riconoscere” l’offerta culinaria all’interno di un format a lui comprensibile, con dei parametri prefissati che lo rassicurino e lo convincano di essere nel posto giusto. Parametri assolutamente moderni: il linguaggio, la location, la grafica, la distribuzione.

La presentazione del prodotto, per essere di successo, deve contenere la “poetica” del nostro tempo.

Nel caso della gastronomia, bisogna che il piatto sia formato da ingredienti non solo di territorio, ma evocativi, dicevamo. Non basta che il sale sia integrale, ma deve venire dalle scogliere della Bretagna, o dalle pendici dell’Himalaya; perché in un mondo globalizzato, bisogna mangiare il mondo stesso.

Il piatto deve poi avere connotazioni social: per cui vegan, equo e solidale, o a km zero, piuttosto che filetto delle pampas argentine, a seconda del target dell’utenza di riferimento.

Sull’offerta va poi imbastita una storia, connessa alla location: ed ecco avvicinarsi il caicco che quest’estate solcherà i mari di Ponza, con corollario di pirati, e cartine dell’isola “scoperte” dall’altra parte del mondo. Ovviamente non importa che la storia sia veritiera, importa che sia gradita al fruitore. E, dal momento che il prodotto si vende prima on-line, bisogna che la presentazione abbia tutti i requisiti per piacere.

Come fa a piacere un prodotto, oggi? Come sempre, deve essere inserito nel contesto giusto. Solo che il contesto giusto oggi è profondamente immateriale, come accennavo, visto che tutto avviene, compresa la distribuzione, all’interno di una scatoletta di plastica con immagini, parole e suoni in movimento. Per avere successo bisogna mixare tendenze sociali, passare attraverso il riconoscimento degli esperti, ed inserirsi in un segmento di mercato giusto.

Se si è bravi e si hanno le aderenze giuste, si ha successo, il resto non conta, tutto è mutevole.
Le vecchie categorie non contano più.
Un esempio?
Stiamo arrivando al fast food che diventa slow food.
Come definire altrimenti il prodotto attualmente in vendita da Mc Donalds, cioè il panino firmato dallo chef videogenico? Il cliente viene rassicurato: il quel panino vi è non solo qualità della merce, ma anche ricerca, equilibrio di sapori, soprattutto il pedigree dello chef. Perché non stai mangiando un panino, ma tutti i format televisivi in cui il nostro eroe ci dice cosa e come mangiare. Il panino che mangi dura sempre due minuti, ma sono due minuti dilatati all’infinito, fuori dalle coordinate spazio-tempo.

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E soprattutto sai che stai facendo la cosa giusta, oggi.
Oppure, al contrario: il prodotto storico che diventa fast food.
Un prodotto italiano DOP d’eccellenza, come la pizza napoletana, caratterizzato da una forte impronta sociale storica e qualitativa, con pochi ingredienti combinati con sapienza, si sta trasformando sempre più spesso nel suo opposto, con catene di franchising e offerte di centinaia di gusti possibili.
Non è solo un fenomeno di mercato: ci sono esperti che addirittura codificano ed indicano la strada da percorrere.

Marco Longo, ad esempio, una firma tra le più rappresentative del panorama gastronomico italiano, arriva a dire: “…il problema principe della Pizza Napoletana, a Roma e, per esperienza mia di anni dappertutto in Italia e nel mondo, è l’essere praticamente una crêpe, a Roma lo “straccio moscio”. Questo è un punto critico di successo, come si dice nelle analisi di marketing. La piega a portafoglio è la tipicità della Pizza Napoletana che, nei decenni ante e dopo guerra, doveva far sì che la pizza fosse consumata in piedi. Oggigiorno invece, la Pizza Napoletana si mangia nel piatto, che la raffredda pure, si consuma anche in un quarto d’ora mentre si parla a tavola con gli altri, non è più un piatto di necessità per la fame. Si tratta, quindi, di una scelta manifestamente errata. E i condimenti? Amici, qui c’è veramente un mondo da scoprire: tanto per dire, già nel 1978 qui a Roma andavo in una pizzeria che aveva 100 pizze diverse. Sì, avete letto bene. In tutto il resto del mondo, idem, tanti gusti, tante guarnizioni sulla pizza da superare qualsiasi fantasia. Napoli, quindi, in questo sta indietro ed indietro parecchio…”

E poi la chiosa finale: Ecco, io almeno una cosa auspico: il silenzio di chi non vuole cambiare. Silenzio. Nessun ostacolo, confronto, ripicca, attacco, levata di scudi, oltre a “Difese”, “Tradizioni”, “Territori”, niente insomma, contro chi a Napoli vuole cambiare e rendersi interprete di una Pizza Napoletana moderna, vicina ai gusti più diffusi ed anche avanti ad essi, dove possibile.”

In fondo, è lo stesso concetto espresso proprio da Food Innovation Global Mission, che ha sede a Reggio Emilia, il cui obiettivo è formare gli innovatori della filiera agroalimentare, ed a cui si ispira il progetto che riguarderà Ponza quest’estate: “il ragù bolognese 50 anni fa era fatto in maniera totalmente diversa, senza pomodoro e olio d’oliva, ma solo con grassi di natura animale. Oggi, probabilmente, un sugo del genere non verrebbe consumato e apprezzato. La ricchezza di alcuni cibi iconici, quindi, sta la capacità di innovare nella tradizione.

Dalla parte opposta della filiera, troviamo Don Pasta, eclettico personaggio che si definisce “dj, economista, appassionato di gastronomia” di cui vi suggerisco “Artusi Remix”, Mondadori Ed. (2014).
Ecco un condensato del suo pensiero (e la copertina del suo libro):

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L’Italia è fortemente unita nel sapere cucinare, ma è il regno della biodiversità dei saperi tanto quanto lo è dal punto di vista geomorfologico: ogni zona ha il suo vitigno, il suo clima e il suo territorio. E questo è un fatto da salvare.

La cucina italiana è popolare: erano le classi meno agiate quelle che sapevano cucinare con poco, mangiando bene. Ora il rischio è di scivolare nel contrario. Perché questi mercati spesso sono alla portata delle classi benestanti. E il problema, ancora una volta, è linguistico. Perché ci si dimentica di dare alla gente la possibilità di pensare”.

Prima ancora di discutere sulla filiera corta o sul kilometro zero, bisogna recuperare il rapporto con le nonne che sapevano mangiare benissimo grazie a quel sapere democratico e diffuso di parsimonia e dignità. La mia battaglia è questa”.

In Salento, la mia terra, siamo amanti delle rape lesse condite con olio, sale e limone. Un modo gustoso di mangiare quasi niente. E questo lo dico perché la dieta Mediterranea ha un pregio unico al mondo, che è quel suo modo di distribuire il sapere tra la gente. Prevede infatti momenti di festa luculliani e momenti di pulizia per il corpo. In ogni caso, a tavola si fa festa. Scherzo sul salutismo e sul veganesimo principalmente perché non tengono conto del contesto sociale. La cucina è innanzitutto narrazione.

Questo un altro libro interessante sul tema – Gianluca Biscalchin: Prêt-à-gourmet. Come diventare un vero gourmet a prova di gaffe; Mondadori, 2013 –, da cui sono tratte anche le tavole illustrative:

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Che dire? Senza emettere sentenze assolute, che tutto è in movimento, una cosa penso si possa dire, come assioma: nel mondo globalizzato, a dispetto delle apparenze, che anzi ne fanno un caposaldo, la qualità non è più un valore, perché il contesto sociale non è più un valore. Non perché non ve ne sia, di qualità, ma proprio perché non è il parametro, la cosa che conta di più; ma questo in tutti i campi, non solo a tavola.

Ma perché si manifesta soprattutto sul mangiare, questa tendenza della modernità?
Così, per gioco, possiamo scomodare persino figure del mito, come il mostro indù Kirtimukha che si mangiava da solo o Uroboro, un serpente che si mordeva la coda.
Forse perché in un mondo veloce e bulimico, che deve ingoiare tutto e subito, non c’è icona più calzante del cibo: in sostanza mangiamo noi stessi…

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