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Coco. Giocare con la morte, si può?

proposto da Sandro Russo

 

Può succedere che un film visto più di una settimana fa, metta voglia di rivederlo e intanto lavori dentro e spinga a scriverne su queste pagine? È successo con Coco, film d’animazione della Walt Disney – Pixar, tuttora nelle sale.

Viene dal laboratorio di idee della Pixar, la casa di animazione nata con lo zampino di Steve Jobs e capitanata dal geniaccio John Lasseter [Toy story (1995), Alla ricerca di Nemo (2003), Ratatouille (2007); WALL E (2008); Up (2009); Inside Out (2015) per citare solo alcuni dei suoi successi] che con la fusione ha dato nuova vita alla gloriosa ma esangue Walt Disney Production.

È da un po’ che abbiamo l’impressione che i film di animazione siano diventato altro da quella categoria – intelligente intrattenimento per bambini – in cui li avevamo inseriti tanto tempo fa.
Basti pensare a Inside-Out, una storia affascinante che veicola un approfondimento delle più interessanti e aggiornate teorie in tema di funzionamento della mente e della memoria in particolare.

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Coco [regia di Lee Unkrich, Adrian Molina (co-regia) (2017)] non è da meno. Affonda le sue radici nella immaginifica e poetica tradizione messicana del culto dei morti di cui abbiamo già avuto modo di scrivere su queste pagine per la ricorrenza di Ognissanti di qualche anno fa (2013: leggi qui [3]).


Il fulcro della narrazione è l’idea, profondamente radicata nella cultura messicana, che i morti continuano a vivere finché si mantiene tra gli uomini il loro ricordo. Ad essi è dedicato un giorno particolare – el dìa de Muertos, appunto -, in cui essi possono tornare non visti sulla terra e riunirsi ai loro cari.

Mentre da noi laCommemorazione dei Defunti” è un giorno di tristezza, riflessione e ricordo, in Messico è una festa gioiosa ed allegra: per el Dia de los muertos è quindi necessario farsi trovare preparati con i cempasúchil (si pronuncia “sempasucil”, noti come “i fiori dei morti” – sono i nostri tagete (*), che vengono sparsi a terra perché secondo la tradizione servono ad indicare la strada al defunto.

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Questi fiori sono dappertutto; vengono anche posti sugli altarini con le foto, soprannominati ofrendas, preparati sia a casa che dinanzi la tomba, con del buon cibo a base di carne e fagioli, offerte varie e i ricordi del defunto.

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Sugli altarini sono posti diversi elementi: la terra, i cui frutti nutrono le anime dei defunti, il vento rappresentato dal papel picado, una fine carta bucherellata, l’acqua versata in un recipiente in modo che le anime possano dissetarsi ed il fuoco attraverso candele e lumini, una per l’anima da commemorare ed una per l’anima dimenticata.

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Le abitazioni rimangono aperte per permettere a tutti di rendere omaggio ai defunti. Addirittura c’è chi lascia dinanzi all’ingresso del cibo, bevande ed un cuscino in modo da consentire all’anima dei propri cari di rifocillarsi e riposarsi. Ovunque, si festeggia con fuochi d’artificio, pupazzi di carta pesta, musica e tanta gioia. Ed è anche, e soprattutto, una festa per i bambini.

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Il film segue questa traccia attraverso le avventure di Miguel, un bambino messicano appartenente ad una famiglia di calzolai per un’antica scelta: quando dalle tradizioni familiari fu eradicata per sempre la musica e tutte le sue manifestazioni a causa di un tradimento subito. Solo che Miguel siente la mùsica en su sangre e contravviene ai disposti familiari, infilandosi in una serie mirabolante di avventure che lo portano nel regno dei Morti (e ritorno) per mettere a posto alcune ingiustizie che andavano sanate.

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È un film affascinante e tenero, con la fantasmagoria che le immagini di animazione oggi permettono (**), ed il nucleo forte di un’ottima sceneggiatura.

Possiamo anche tentare di rintracciarne gli antecedenti filmici e letterari…

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Citerei tra i primi soprattutto La sposa cadavere (Corpse Bride), un film d’animazione del 2005 diretto da Tim Burton e Mike Johnson, trasposizione in epoca vittoriana di una antica storia folkloristica ebrea; sempre di Tim Burton è da ricordare The Nightmare Before Christmas del 1982.

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Fondamentale, sebbene in tutt’altro registro – Que viva Mexico il documentario celebrativo incompiuto del 1932 del ‘maestro dei maestri’ Sergej M. Ejzenstejn sul Messico e la sua rivoluzione del 1911 (dei cinque episodi quello dal titolo “Fiesta”).

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Sul versante letterario, il mito di Orfeo [da cui anche Orfeo negro (Orfeu negro) prezioso film del 1959, diretto da Marcel Camus, tratto da una pièce teatrale di Vinicius de Moraes] e perfino il libro di Michela Murgia, Accabatora (del 2010: romanzo vincitore del Premio Campiello).

Guarda qui il trailer ufficiale italiano del film Coco:

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(*) – Chi mi può ricordare il nome dialettale ponzese dei tagete? (NdA)
– Forse “garofani americani” – suggerisce Giovanni Conte-Matrone

(**) – C’è un ruolo nella trama del film per gli “alebrijes” o “spiriti guida animali” per accompagnare e proteggere le anime nel trapasso, chimere colorate in tinte sgargianti che a rigore non fanno parte della tradizione messicana della morte: draghi alati, farfalle con testa di leone, pesci con corni e zampe. Derivano da una forma di artigianato, diventata ormai tradizionale, che risale agli anni 30 del secolo scorso, per intuizione originale (sembra in seguito a un sogno) di un artigiano-artista, Pedro Linares (1906-1992) che cominciò a fabbricare figure fantastiche in pasta di carta macerata (papel maché) e colorata, e collaborò anche con Diego Rivera e Frida Kahlo. Tale artigianato, nato a Città del Messico, si è poi diffuso soprattutto nello stato di Oaxaca. Alla fine  di marzo, a San Martín Tilcajete, si svolge una singolare fiera dedicata a queste creazioni.

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