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Il vapoforno (2)

di Pasquale Scarpati
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A me, però, nuoceva molto, anzi era una sofferenza, il dover lasciare le coltri così presto la mattina, per cui spesso ed anche volentieri decidevo di trascorrere nei locali del forno tutta la notte cominciando dalle 8 di sera. Dall’ora, cioè, in cui “si metteva mano”.

Giulio, il panettiere di Vico Equense, aveva insegnato a mio fratello “l’arte del pane”.
Una lavorazione lunga, rigorosamente fatta con “il criscito” cioè il lievito madre che andava rigenerato ogni tre ore (a questo provvedeva mia madre durante il giorno).
Dopo l’impasto, su un tavolo veniva posta la massa amorfa della farina impastata, sollevata a via forza dall’impastatrice.
A me spettava tagliarla a pezzi con una spatola ben affilata, poi pesarla in base alla pezzatura del pane. Intanto mio fratello “l’arrotava”, creava cioè piccole pagnotte che, infarinate, si mettevano a lievitare. In seguito si dava loro la forma voluta.
Nel frattempo scorrevano le ore e si attendeva che le forme giungessero a giusta lievitazione.

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Mentre si lavorava non mancavano aneddoti e barzellette: “c’era un americano, un francese ed un napoletano…”; “una volta si incontrarono ’nu’ ciuccio e ’nu lione”; “C’erano i ragazzini che andavano a rubare le arance al prete…”; “Il crocifisso che si schiodava e il sagrestano distratto che lo aveva maldestramente manovrato…”; “C’era un avvocato di nome Caputo…” …e così via e giù risate a crepapelle.

Dov’erano andate a finire le “sudate carte?” Nell’oblio più totale.
D’estate, non si disdegnava fare due passi nel silenzio della banchina, guardando spesso l’orologio specialmente se c’era il pane in cottura.
A tal proposito, siccome verso l’una o le due di notte poteva venire ’a cicagna, si dava la corda ad una sveglia rotonda e bianca, abbastanza grande che, quando trillava, faceva sobbalzare dal lettino: sembrava una campana! Non so se anche il vicinato la sentisse, fatto sta che nessuno mai se ne lamentò!

Nel silenzio profondo e nell’aria tersa si sentivano le voci provenienti dalla banchina vecchia o da Sant’Antonio, a seconda della direzione del soffio del vento. Ma a me piaceva soprattutto ascoltare, per radio, il “notturno”, perché, a differenza dei programmi del giorno pieni di “chiacchiere”, venivano diffuse soltanto canzoni o musiche senza alcuna interruzione intervallate ogni mezz’ora da un breve notiziario a volte in altre lingue.
Sembrava una voce sonnolenta e dava un tono di mestizia e malinconia. Approfittando della vicinanza del mare non era raro che assaporassi il suo abbraccio, stando ben attento, allorché uscivo grondante, perché il venticello sottile, traditore, avrebbe potuto giocare “brutti scherzi”. Immediatamente, quindi, mi avvolgevo in un accappatoio e di corsa mi riparavo tra le bianche pareti del laboratorio.
Ciò mi serviva anche per togliermi di dosso la farina che, impalpabile e traditrice, si intrufolava dappertutto non appena si metteva piede nel locale, pur senza fare nulla.

Nelle “feste comandate”, il forno rimaneva aperto per tutte le 24 ore e per almeno due giorni. Era un via vai di persone che venivano ad infornare qualcosa, era un chiacchiericcio continuo, erano discussioni, era un parlare fatto di mezze frasi, allusioni, erano sorrisi…

Quelle ciotole o tegami ricolmi di impasto cremoso e zuccherato! Nell’aria si spandeva dell’odore della vanillina che si mischiava a quello del limone grattugiato e del cioccolato: casatiell’, pastiere ’i grane e ’i pasta; teglie in cui troneggiava un pollo con le patate su cui era cosparso abbondante rosmarino ma “poco olio” perché, si sa, il pollo è “grassoso” di suo!
Non poteva mancare il timballo di pasta in cui occhieggiavano le uova sode tagliate a pezzettini e pezzi di carne macinata. Qualche volta anche un poco di mozzarella. Era rara sia perché essendo un prodotto fresco aveva bisogno del frigorifero e questi nell’Isola latitavano o addirittura non potevano esserci perché alcune zone non ancora erano servite dall’energia elettrica; sia perché era considerata poco conveniente: con pochi soldi a disposizione non era con la mozzarella che si riusciva a “riempire la pancia”!
Insomma – tra gli odori, il brusìo e tutto il resto – era la festa che si incuneava tra i sacchi di farina, il bancone, i cassonetti. Così si poteva tranquillamente asserire che laggiù si sentiva “il profumo della festa” in tutti i suoi aspetti! Io, non potendo assaggiare, come ero solito fare a casa, mi “arrangiavo” con qualche panino o qualche brioche avanzata.

Ma il forno riservava anche qualche altra sorpresa.
Nonna “ Tummetella” aveva così tanti fichi d’india che persino il maiale ne era disgustato. Mio fratello, quando tornava dal giro delle Forna (di cui ho già scritto), qualche volta si fermava da lei e ne racimolava un po’. Quel giorno ne aveva portato circa un centinaio e, per ammorbidire le spine, le aveva messe in un secchio colmo d’acqua. Questo tranquillamente riposava fuori la porta del locale del forno in attesa che qualcuno lo prendesse per portarlo a casa. Mia madre, affacciandosi dal balcone, vide il nostro giovane aiutante infilzare un fico d’india con una forchetta, sbucciarlo e mangiarlo con voluttà. Mia madre gli raccomandò di non abusarne. Ma lui, candidamente, le rispose di non preoccuparsi perché quel frutto non gli aveva dato mai alcun problema. Fatto sta che nel secchio ne rimasero pochi. Non ci facemmo neppure caso. Durante la notte, però, nel momento in cui bisognava tirar fuori il pane dal forno e prepararsi per l’ulteriore infornata, il giovane risultava irreperibile. Cerca di qua, cerca di là; preoccupati lo chiamavamo a gran voce. Nulla. Finalmente una voce lamentosa risuonò dal bagno: Corremmo e lo trovammo assiso sulla tazza con il viso terreo e con le lacrime agli occhi per lo sforzo: non riusciva a defecare. La tensione si sciolse in una risata e gli demmo vari consigli anche i più grotteschi. Ma quello, poverino, non aveva pace: faceva continuamente la spola tra il lettino ed il bagno. Finalmente sul far dell’alba ci accorgemmo da un suono sordo e cupo, che aveva risolto il problema.
Non credo che da quel momento abbia fatto mai più abuso di fichi d’india.

Quando ’u rasiére da rosso acceso era divenuto nero e polveroso per la cenere e le persone si rannicchiavano sotto coperte pesantissime (perché si pensava che quanto più fossero pesanti tanto più tenessero lontano il freddo) coadiuvate talvolta da borse di acqua calda o da una sorta di cilindro di terracotta, noi, nei locali del vapoforno, accarezzati dal tepore, guardavamo fuori la notte nera e l’alba livida, che saliva tardi, quasi con nonchalance come se il mondo al di fuori di quei locali imbiancati, non ci appartenesse. Passavano uomini incappottati, con sciarpe di lana grezza, fatte a mano con i ferri, avvolte intorno al collo e cappelli di lana. Si stringevano nelle spalle cercando di ripararsi dal vento. Donne con i fazzoletti in testa se non con lo scialle di lana.

Puntine fredde come spilli si levavano dal mare ed andavano a colpire i malcapitati che invano cercavano di ripararsi. Nell’alba livida nuvole nere si accavallavano, fuggendo nella direzione voluta dal vento, loro signore.

Come gli uomini che seguono ora l’istinto ora la ragione, ora l’odio ora l’amore in un groviglio ed in una lotta in cui ora prevale una parte ora un’altra, così alcune onde tese e spumeggianti, si avvicinavano minacciose alla costa ma poi andavano a morire quasi dolcemente sulle spiagge del porto; altre, invece, si arrampicavano sulla “Ravia” tentando di ghermire la casa diroccata; altre ancora, con violenza elevavano alti spruzzi dietro “il lanternino” quasi a voler sottomettere la scogliera o a darsi maggiore visibilità.

[3]

Ma gli spruzzi, portati via dal vento, svanivano nell’aria immediatamente. Spesso, infatti, la visibilità irrompe robustamente con forza, dappertutto, eleva alti spruzzi ma facilmente si disperde. Il vento invano ululava e protestava perché non riusciva a passare le ben serrate porte.
A noi tutto ciò non interessava: lavoravamo indossando abiti leggeri, salvo poi, incappottarci prima di uscire. Lui, il vento, freddo e di soppiatto, si intrufolava soltanto quando qualche persona ’ntesecùt’i’ fridd’, stropicciandosi le mani, entrava e, ancora incappottata, andava a stendere le mani davanti alle bocche forno nel quale già qualche palatone aveva preso colore. Ma immediatamente il suo gelo, trasformandosi in tepore, partecipava al caldo abbraccio. L’altro pane o era già cotto oppure beatamente, lentamente e naturalmente, come un bimbo felice, era intento alla sua crescita.
Chiunque era sempre ben accetto. Quando si era tolto qualche indumento e gli si era stata offerta una tazza di caffè o qualcosa di caldo, “riportava” le notizie fresche del mattino: era il giornale quotidiano. He sapute chell’ ch’è succeess a chella vann’..?; Chill’ ha avut ’na ciorta..! Chell’ate s’a figliate…
Aneddoti oppure racconti di caccia o di pesca. Anche se persone conosciute, dall’accento si capiva la loro provenienza, perché ogni zona esprimeva un proprio accento, soprattutto quelli che venivano dalle Forna…
Immancabili le “previsioni del tempo”. Se era ancora buio chiedevamo: Che vient’ tire? Ce sta ’na libecciata..!; ’U scirocco puzza!, ’U levant’ è frisch..! Tiemp’ ’i rutunn e calamare! He mis’ a spugna’ ’u baccalà..?

[4]

A Natale mio fratello si cimentava anche nel disegnare i roccocò, i mustacciuoli, i susamielli… Allora il profumo diveniva più intenso. Alcuni di questi dolci venivano posti davanti ad una piccola Natività, naturalmente di terracotta (la plastica era sconosciuta), posta in un angolo e non mancava qualche fronzolo natalizio, mentre il caldo buono ci avvolgeva.

Disappannando i vetri, vedevo sparire in lontananza, nella notte nera, le luci ondeggianti del “Ponza”. Non avrei voluto mai andar via in compagnia di quelle luci…

Buon Natale
Nel tepore
Degli affetti

Gli affetti
Provocano
Tepore

Le allegre
Sonore
Parole
I baci
Veloci
Si dileguano
Nel vento

Rimane
L’abbraccio
Stretto
Caldo
Avvolgente
Nel tempo
Nello spazio

E’ il Natale
Di tutti
E per tutti.

                           (Pasquale)

 

[Il vapoforno. (2) – Fine]
Per la puntata precedente leggi qui [5]