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Il vapoforno (1)

di Pasquale Scarpati

 

Ogni tanto mi rifaccio vivo Mi scuso ma non è per pigrizia; è che il tempo letteralmente vola via in mille rivoli. Mi metto a scrivere, poi, devo lasciare, poi riprendo e così via.
Non ho dimenticato tante cose che vi ho promesso (spero di tener fede); tra l’altro avevo promesso a Martina – a cui vanno i miei saluti ed i miei auguri per la laurea – di scrivere qualcosa sul vapoforno dei tempi andati.
Ho fatto una dedica in special modo a Peppe ed Eva che oltre ad essere miei cugini restano, insieme alla “Russiella”, quelli che sono rimasti dei “vecchi” panificatori dell’isola. Lo è anche D’Atri ma mi sembra che si sia dedicato esclusivamente alle pizze (o sbaglio?).
Peppe ed Eva fanno parte di quella cima (la vivente) che tiene ancora attraccata “questa nave” all’Isola (l’altra cima è composta da quelle persone che non ci sono più).
Intanto un abbraccio a tutti della redazione e tanti cari auguri di Buon Natale e soprattutto Felice e Sereno Anno Nuovo.
Pasquale

[1]

Quando cala il gelo non c’è nulla di meglio che assaporare il calore indotto da una buona tazza di bevanda calda, da una persona amica, dagli affetti, dall’animo che si eleva verso calorosi pensieri nel “caldo buono” insieme alle “quattro capriole di fumo del focolare”.
A quanti lavorano mentre la maggior parte degli uomini giace mollemente tra le braccia di Morfeo ed in particolare a Peppe ed Eva.


Il vapoforno

Quando, allegro, me ne andavo dai cortili delimitati da porticati e muri, pensavo, anzi sognavo, una volta rientrato a casa, di potermi saziare di sonno, dal momento che, come ho già scritto, la sveglia, ogni santissima mattina, avveniva alle sei e un quarto nei giorni feriali ad eccezione della domenica quando l’altoparlante gracchiava alla sei e mezzo (sic!).

Ma quel mio pensiero o aspirazione rimaneva soltanto un sogno. Mio padre, infatti, trascorsi due o tre giorni dal mio arrivo, mi veniva a tuzzuliare alle tre del mattino.
– Guaglio’
– diceva – alzati, vai ad aiutare tuo fratello”.
E mia madre, di rimando: “Se si dorme troppo, anche il cervello si addormenta”.
Non so se davvero esiste o esistesse tale “patologia” o chi l’abbia mai documentata, fatto sta che, mio malgrado e pieno di sonno, ero costretto a lasciare le dolci coltri. Se ciò accadeva verso la metà del mese di giugno, risultava meno doloroso rispetto all’inverno, quando il tepore delle coltri induce a restare a letto.

Scendevo, quindi, rapidamente le scale che immettevano su corso Carlo Pisacane, piegavo a sinistra per scendere le strette scalette che portavano e portano alla banchina nuova.
Ma spesso preferivo piegare a destra, prendevo la breve discesa che porta a Sant’Antonio; attraversavo ’u ruttone che porta lo stesso nome, pregno dell’odore di muffa e dei mille “effluvi” provenienti delle grotte prospicienti dove inoltre, qualche volta, si udiva il muggito di qualche bovino che stazionava in una di quelle in attesa di essere condotto al macello, quindi piegavo a destra imboccando la banchina, più stretta di quella attuale, che sapeva di nuovo.

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L’aria fresca del mattino e l’inizio del chiarore verso gli Aurunci (non esisteva l’ora legale) non solo mi svestivano della sonnolenza ma mi facevano venire anche un certo languorino che si acuiva non appena mettevo piede nei locali del forno.
L’atmosfera infatti, ed anche i muri, erano pregni della fragranza del pane appena sfornato ed i palatoni, brontoloni, ben cotti, dalla crosta piuttosto ruvida, stavano nei cassonetti, in bella mostra pronti per un assaggio.
Senza coltello, solo con le mani: zac, un certo sforzo sulla punta o per meglio dire sul culurcio ed ecco la mollica fumante e la crosta tagliata, in modo non uniforme, come le cime di alcune, belle montagne che svettano in quella parte del Paese dove si odono accenti diversi.
Quello era lo sfizio. Ma io, per il momento mi astenevo aspettando o la palatella, signorina, lucida, elegante e morbida che, a differenza del palatone, si concedeva volentieri non opponendo molta resistenza o le brioche, quelle col piripicchio, o addirittura i panini, se per caso qualcuno li avesse ordinati per qualche matrimonio o altra cerimonia.

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Intanto a me spettava prendere i bigliettini con le ordinazioni ed i cesti o i sacchi di carta e cominciare ad inserire in essi i palatoni.
Le mie mani, non abituate a quel calore intenso, si rifiutavano di afferrarli al centro; pertanto li prendevo alla due estremità e, come un giocoliere che armeggia con un bastone, non senza un poco di difficoltà, li riponevo in fretta in fretta là dove dovevano essere riposti. Inutilmente, mio fratello, vedendomi impacciato, ridendo mi faceva vedere come avrebbero dovuti essere presi. Afferrava, come una mela, quello che, ancora fumante, avrebbe voluto scappar via dalla pala e lo riponeva nei cassonetti.

Il forno era in realtà un vapoforno. Diverso da quelli che usualmente si usavano sull’Isola. Uno simile lo vidi da compare Barbetta. Non aveva una sola bocca grande, ma ne aveva tre anche se meno alte e con i vetri a scomparsa. Mentre nei forni tradizionali, per riscaldarli, la legna si immetteva direttamente sul pavimento (un po’ come quelli dove oggi viene cotta la pizza) oppure davanti alla bocca si metteva un fusto di nafta da 200 litri sormontato da un bocchettone simile ad un lancia fiamma, il vapoforno, invece, segno dei tempi, aveva una camera, posta su di un lato e composta da mattoni refrattari, in cui bruciava il combustibile; assolutamente non comunicante con il piano cottura. In questa, come rodaggio, bruciò molta legna per molti mesi, poi sostituita dalla nafta trasportata attraverso tubi da un deposito. Era detto vapoforno perché attraverso una leva si faceva scendere sul pane o per meglio dire sulle palatelle un vapore acqueo così da renderle lucide. Mentre il palatone aveva una pezzatura da un Kg, queste ultime pesavano la metà.

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A me affascinava soprattutto l’infornata. Quando, cioè, tutte le forme venivano messe in fila su una pala lunga e stretta. Velocemente si faceva, all’occorrenza, sulla parte superiore il taglio obliquo con una lametta ed immediatamente venivano infornate. Si apriva lo sportellino, si introduceva la pala e con un colpo preciso e secco, leggermente sulla destra o sulla sinistra, si facevano scivolare sul pavimento del forno. C’era sempre quella capricciosa che opponeva una certa resistenza; in tal caso bisognava usare le maniere forti: un colpo più secco e più violento. Finita l’operazione, immediatamente si richiudeva lo sportellino.

Quando venivano completate tutte le infornate si passava, all’occorrenza, agli extra: panini, brioche, freselle e gallette. Questi prodotti richiedevano una lavorazione più complessa essendo fatti tutti rigorosamente a mano. A parte il vapoforno, infatti, l’unica “macchina moderna” era un’impastatrice a due bracci.

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Quando si cuocevano le brioche si spandeva un profumo di dolce e mentre le spennellavo con il tuorlo d’uovo, assaggiavo di qua e di là. Ma le gallette e soprattutto le freselle (quelle bianche) richiedevano una grande attenzione e tanto tempo. Le gallette erano senza sale e non erano lievitate. Mio fratello dava loro una forma rotonda mentre a me spettava bucarle con un attrezzo che aveva 5 chiodi. Dovevo pigiare forte e velocemente su di loro.
Quando uscivano dal forno avevano un colore bruno, erano leggerissime e, messe insieme nei sacchi, emettevano un suono simile a quello delle nacchere. Come ho già scritto venivano usate nei lunghi viaggi per mare. Ma io non disdegnavo, quando mi allontanavo in barca, di bagnarle nell’acqua di mare e di strofinare su di esse un pomodoro: senza olio, ma con il sale marino! Divenivano immediatamente morbide morbide.

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Un po’ diversa era la lavorazione delle freselle. Esse, infatti, avevano bisogno oltretutto di una doppia cottura. Dopo l’impasto si stendevano delle forme come se fossero palatoni. Ma avevano altra consistenza per cui si facevano cuocere leggermente. Queste forme, come si usava fare anche con le palatelle, venivano intaccati con una lametta. Ma mentre per la palatella gli intacchi erano obliqui, in questo caso bisognava intaccare in verticale, tutti alla medesima distanza. Dopo la prima, leggera cottura, non appena la superficie aveva preso colore, si facevano raffreddare. Poi si tagliavano negli intacchi. Ne usciva un pezzo che aveva al suo interno una mollica morbida, morbida, simile a quella dei panino all’olio (che a quel tempo non si usavano forse perché l’olio era prezioso in quanto costava molto per le finanze familiari dell’epoca) e che aveva la forma di una mezzaluna un poco spessa. Ben allineate in un vassoio capiente, si rimettevano nel forno fino a che non avevano acquistato una coloratura dorata e quindi ben cotte.

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Ma bisognava stare molto attenti perché, superato il limite di cottura, immediatamente si abbrustolivano, divenendo amarognole. Pertanto molto spesso si andava a guardare attraverso i vetri a che punto fosse giunta la cottura.
Allorché uscivano dal forno i cinque sensi si eccitavano: l’olfatto era inebriato per il profumo, la vista era entusiasmata per il colore dorato, friabilissime, il tatto non poteva non astenersi dal toccarle ed il gusto reclamava la sua parte, nonostante scottassero e immediatamente si formasse la bolla sotto il palato.
Anche l’udito esigeva la sua parte: “crac, crac” era un piacere sgranocchiarle da sole o in compagnia di un qualsiasi companatico. Il coinvolgimento dei cinque sensi! Se poi, per qualche festino, si cuocevano altre “ leccornie” come i tarallucci ’nzogna e pepe, i panini, allora l’assaggio era obbligatorio.
D’altra parte si diceva “chi lavora aspetta premio” e poi, dal mio punto di vista, era bene assaggiare per verificare che tutto fosse cotto a puntino! Queste erano alcune delle “piccole gioie” che facevano da contraltare alla fatica di doversi alzare al canto del gallo o ancor prima. Non esistevano, infatti, altri “diversivi”: non pizze, non biscotti di vario genere o altre prelibatezze che oggi, diffusamente ed abitualmente fanno bella mostra nelle vetrine delle panetterie.

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Le altre gioie erano: gustare l’aria fresca, limpida del mattino, pregna del profumo del pane, sentire il corpo prendere vigore, respirare a pieni polmoni, udire lo scalpiccio di coloro che si affrettavano a prendere ’u vapore che partiva alle 4,30 o alle 5, vedere qualche asino con il suo conducente che si avviava verso la banchina vecchia, notare le barche che uscivano a remi o a motore, vedere l’alba e quindi l’aurora ed il sole che faceva capolino tra i monti e poi la nave che si allontanava, nel sole, in uno specchio d’acqua o, in inverno, le sue luci che si riflettevano nel mare nella baia buia e silente così da sembrare una festa e poi, piano piano vederle svanire nel buio pesto o sentire il ticchettio dell’ancora che saliva a bordo e quella del bastimento di “Sigaretta” tirata a mano cioè con un argano manovrato da un’asta molto lunga su cui si appoggiavano gli uomini alternativamente ora da una parte ora dall’altra.

[Il vapoforno. (1) – Continua]