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Dal Cimitero

di Francesco De Luca

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“So’ gghiuto a mare ca tenevo sette-otto anne. Mio padre, allora, andava a pescare aragoste in Sardegna. Mi tolse dalla scuola e mi portò con lui. Il maestro Grassucci lo rassicurò che sarei stato promosso.
Da allora ho setacciato il nostro mare in ogni direzione. Un anno andammo in Adriatico a pescare alici perché dicevano che quelle erano più grosse e il mercato era più favorevole. Nelle secche spagnole abbiamo raccolto il corallo. A La Galite ci andammo per salutare gli ultimi ponzesi che stavano trasferendosi in Francia.
Sempre a bordo, da marzo a novembre. A combattere coi temporali, con le leggi sempre più incapaci di guidare il cambiamento della pesca. Sempre più misera, compromessa dalle disposizioni delle Capitanerie di Porto, dei Ministeri, dell’Europa.
Pure l’Europa ci si è messa, in ultimo, a rendere grave la vita dei pescatori.
Una volta erano attenti e assoggettati ai capricci dei venti e dei mari, e oggi in ginocchio davanti a chi comanda i mercati cittadini. E tiene le “sale frigorifero” e fa il prezzo che vuole.
Oggi ce stanno cchiù legge ca pisce. E’ nu mestiere ca se fa cchiù cu’i carte ca cu’i rezze. Mo’ tengo uttant’anne…”

Ha il volto grinzoso di chi ha sentito il sole cuocergli il viso. Capelli bianchi e sguardo fiero.
Sta sulla balconata dello spiazzo dei Cappelloni, al Cimitero. Il mare sotto scherza con gli scogli della Madonna, e poi si espande e comprende quei puntini neri delle Formiche. Ma poi si gonfia ancora fino a ingurgitare la piatta Ventotene.
L’aria permette alla vista di spaziare, e il vecchio pescatore lo guarda compiaciuto.

“Cca… voglio esse mise cca… Figlieme ‘a Portoferraio chiamma… ma io nun ce vaco. E si po’ moro? Ie voglio vede’ ‘u mare…”

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Mi faccio forza e gli dico: “Ma perché? Sai bene che con la morte non vedi più niente. Starai sepolto e… là non c’è da sentire né da vedere …”

“Pecché ‘a morte ie ‘a canosco – risponde. L’ho vista altre volte in viso. Quando nelle Bocche di Bonifacio incontrammo un mare che non ci doveva stare. Il ponente non era previsto e io avevo messo la prua per la Toscana. Sì… ‘a Tuscana… se mettette na tempesta a bell’e buono. Indietro non potevo andare, soltanto avanti. ‘A varca s’a vedette c’u mare e nuie vedètteme ‘a morte cu’ ll’uocchie. Da poppa la barca veniva sollecitata tanto che le onde entravano e inondavano il ponte e la facevano sbandare. Altre onde a flagellare il piccolo scafo. Inerme. Il motore al minimo e noi aggrappati agli appigli, sperando di non capovolgerci. ‘A morte steve llà… e chella vota ‘nce vulette.
Quanta se n’ha pigliate. Quanti amici sono qui. Ne abbiamo viste di vicende. Troppa fatica, poco riposo, tanta soddisfazione, e gioia quando entravamo al riparo di Zannone, nelle braccia del Porto.
Quanno moro voglio sta’ tranquillo. Insieme con chi ho amato, con chi ho giocato. Voglio stare coi miei ”.

“ ‘U no’ … – è venuto il nipote – ‘a nonna se ne sta ienne…”
Lo saluto.

Questo piccolo cimitero, intasato di loculi e affollato da volti fintamente allegri, riesce a dare un senso alla ‘pietà’. Quel sentimento che già i Latini avevano ben definito nella coscienza. Insieme, chi alita e chi no, chi è infastidito dal vento e chi lo è stato, in una catena di sentimenti che ci accomuna, noi e la terra che ci ha visto nascere.

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