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Settantotto anni portati bene

di Francesco De Luca

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La nave per Terracina è lenta. E’ sensazione comune perché poi, in verità, ha un andamento non dissimile dal traghetto per Formia. Ma … se si dà fiato alla sensazione: “…ce vulesse n’elicottero. Mado’ … nun s’arriva maie”.
A parlare così è uno dal quale non t’aspetteresti mai simile giudizio. Un ponzese, di quelli che rimangono impressi. Si siede accanto ed erompe con quella voce che si lascia ben imitare e prendere in giro. Per il roco che fa stridere.
“Quanno iette a funno ‘a nave fore forte Papa ie aveva tène quatte-cinche anne” – comincia.
“Allora con mamma e mio fratello vivevamo insieme a mio nonno ‘ncopp’i Sandole. ? ‘U ssaie o no?”.
“Sì, sì – annuisco – sopra la casa del dottore Sandolo”.
“Esatto, e quella sera vedemmo una nave tutta illuminata che sembrava un palazzo. Uscimmo tutti fuori a vedere come sparpeteiava ncopp’ a ll’onne. E’ una scena che ricordo, anche se ero molto piccolo. Poi un tuono spaccò la sera e la nave affondò”.

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Nel sonno mio nonno fu svegliato perché occorrevano barche. Sul mare, nella vicinanza della costa, galleggiava di tutto. Specialmente scatoloni pieni di cibo. Ora, mio nonno era uno dei pochi che aveva la barca. Perché la famiglia mia era una delle più ricche di Ponza. Mio padre coi fratelli erano proprietari di ben due bastimenti. Negli anni precedenti alla guerra erano adattati a ‘mburchielle per il trasporto delle aragoste fra l’Italia e Marsiglia. Anzi, qui avevano aperto anche una vendita dei crostacei ”.

A parlare è Salvatore Sandolo, il meccanico, quello che per tutti è Sarvatore ‘i panzatuoste.
Ci tiene a sottolineare come la sua famiglia sia stata e sia tuttora una delle famiglie ponzesi benestanti.
La nave per Terracina scivola sul mare calmo ma dentro, nel ponte, la voce di Salvatore agita ogni cosa.
La guerra del 1940 inflisse un duro colpo alla marineria ponzese. I bastimenti furono trasformati in barche da carico. Uno dei due faceva la spola Ponza-Gaeta per il trasporto del caolino. L’altro invece fu requisito dal Ministero della Guerra.
Nel racconto Salvatore non è lineare. Spesso ribadisce la longevità della “gens” Sandolo. Specie le donne. Le sue zie, che erano tante, hanno tutte visti sepolti i propri mariti. E così ricorda che due anni fa andò a New York per celebrare i 100 anni di una sua zia.
Ci tiene in particolare a narrare le traversie della sua giovinezza. Rimase infatti orfano a tre anni. Il padre morì nell’ affondamento del Santa Lucia. E lui si rammarica di non ricordare il volto del padre.

Ma il botto dell’affondamento della nave fuori forte Papa se lo ricorda. Così come dice che tutta quella roba ripescata era bagnata di mare e i biscotti non erano buoni… Poi ha un lampo… nei giorni successivi alla tragedia furono trovati a Cala Inferno alcuni cadaveri. La corrente, prima li aveva allontananti dall’isola e poi stracquati nel versante opposto.

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Negli anni successivi alla pace venne da Napoli un palombaro. “Un omone di nome don Nicola”. Venne con una zattera. Trasse dalla nave distesa sul fondo tutti i camion. Ad uno ad uno li dispose sulla banchina Di Fazio e se li portò in continente. Poi passò alle jeep e anche quelle sparirono. Infine tagliò lo scafo e a pezzi a pezzi, quel che poté, lo trasferì via. Purtroppo foto che dicano come sia stato intasato il porto in quel periodo non se ne conoscono.
I ricordi sono tanti ma in Salvatore più pressante è la voglia di narrare. E così il colloquio sfora nella politica. Il desiderio di riportare quello che si è detto è tanto ma la discrezione me lo impedisce. Lo so, vi perdete ciò che ha dato gusto alla chiacchierata, a alla traversata. Ma Salvatore è uomo che va rispettato.
“Pecché questo soprannome… panzatuoste?” – chiedo.
“Nun ‘u saccio… primma… tutte teneveno ‘u soprannomme” – e qui mi sciorina i nomignoli di tutti gli zii e dei parenti. Praticamente mi zittisce.
Ma la prossima volta tornerò alla carica.