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Fotografie

di Silveria Aroma
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Fermò il passo – si voltò per un breve istante – mi guardò come chi sa, e puntando due pozze di acqua cerula nei miei occhi aggiunse soddisfatto:
Colleziono fotografie, poi sorrise e uscì.

Collezionare fotografie.
Non farfalle, non conchiglie, non francobolli, non amori, non servi: fotografie.
Immagini, istantanee, sensazioni, momenti.
Collezionare occhi e sguardi.
Conservare – in poco spazio – una miriade di incastri, incontri, fusioni e colori.
Una materia di supporto alla non-materia.

Non colleziono foto, sono sprovvista di costanza (e anche di una quota importante di pazienza), ma potrei passare ore ed ore a guardare immagini purché al di là della tecnica, dell’occhio, della bravura e dello strumento ci sia qualcosa di personale, di particolare; quel punto di vista un po’ speciale che ciascuno di noi porta in dono.

Credo sia stato “Il sale della terra” a lasciarmi nella testa una distinzione, forse di Salgado, tra la fotografia e la copia d’immagine.
Non colleziono foto ma ne scatto qua e là per diletto, e stampo quasi mai.
Il mai viene sostituito talvolta dai volti di chi amo.

C’è una valigia preziosa che – ben custodita – conserva le immagini e racconta la storia delle tante mani e dei tanti volti che hanno accompagnato la nostra storia familiare.
Ogni volta che la apro noto un particolare diverso.
E’ una madeleine gusto carta con un vago sentore di sandalo dalla provenienza sconosciuta.

[2]

E’ lì che il mio pesce rosso degli anni ‘70 si è sbiadito senza scomparire dai miei ricordi.

[3]

E’ lì che io e Sabrina restiamo bambine.
In casa all’epoca della mia infanzia doveva abitare anche un folletto dal nome Capelli-negli-occhi, probabilmente l’uso preciso e ripetuto delle forbici sulla mia frangia è opera sua.

[4]

No, questo (anzi questa!) non è il folletto di cui si parlava.
Sono io la bimba abbandonata dietro il Lanternino.

[5]

Toh, c’è anche la mia mamma in bianco e nero che vien dal mare…

E la foto iniziale?

Il mitico Liberato, barcaiolo d’eccellenza.
La sua barca si chiamava Afrodite e portava per mare la dea – di memoria botticelliana – dipinta, azzurro su bianco, sulla fiancata, ben spinta verso prua.
Non indossava scarpe; aveva sviluppato una suola callosa che gli permetteva di camminare agevolmente anche in piena estate. Il suo passo – accompagnato dai risvolti ai pantaloni – era felpato, delicato come i suoi modi.
Talvolta mi portava a pescare.
Raggiungevamo il punto prescelto seguendo antichi segnali; giochi di prospettive e incastri di scogli.
Guardavo i due o tre ami legati al filo di nylon scomparire nell’acqua trascinati da un piombo. Inabissarsi.
Se qualche malcapitato pesce abboccava ripescavo la lenza cercando di mostrarmi brava nel seguire le istruzioni di Liberato, e restavo a guardare i piccoli luveri sospesi brillare finché lui – armato di pazienza – non interveniva a slamarli, per poi lasciarli scivolare sotto i paioli, nell’acqua imbarcata.
Sulla rotta del ritorno c’era sempre un racconto che proponeva con grande enfasi.
Il mio preferito era legato ai gabbiani, a quando lui e un suo ospite non riuscivano ad intendersi per questioni di lingua.

Il turista puntava il cielo entusiasta, ebbro di bellezza: – Seagull!
E Liberato indicava il fuoribordo con insistenza: – No! ho detto che non è un seagull!
E avanti così.
Il motore a cordicella era di un’altra marca.

 

E’ vero, quando fotografo io respiro la fatica dell’uomo, i suoi ritmi, le sue angosce.
Ma vivaddio, anche le sue speranze.
Sebastiao Salgado

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Child, Ecuador; 1998 – © Sebastião Salgado

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Lettura correlata al tema, proposta da Sandro Russo (vedi commento)

La storia è una fotografia. Di Michele Smargiassi.pdf [7]