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 Cosa è il bisso? (parte prima)

di Francesco De Luca

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Cosa è il bisso? E’ un tessuto, morbido, serico, di colore bruno che le popolazioni del nostro meridione, nei secoli passati, ricavavano dai filamenti con i quali la pinna nobilis si radica sul fondo del mare.
Cosa è la pinna nobilis? E’ un mollusco bivalve che nei fondali sabbiosi prospera accanto alla posidonia.
In alcune case a Le Forna, come pure sugli Scotti, ho visto valve di “pinna” lunghe quasi un metro.

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Oggi nel nostro mare se ne trovano di piccole perché il turismo massacra queste forme di vita che mostrano una appariscenza da “decorazione” naturalistica, allo stesso modo che le stelle marine, il carapace della grancevola, le conchiglie.
Ma per saperne di più dagli isolani bisogna chiedere della “lanaperla“. Così viene chiamata dai Ponzesi la pinna nobilis. Lanaperla sì… e la ragione del nome mi appare questa.
Quei filamenti stopposi, abbondanti e lunghi nelle pinne grandi venivano assimilati dal popolo alla lana. Allo stesso modo della lana, infatti, erano pettinati, filati e tessuti per farne un panno. Il bisso per l’appunto. Che impreziosiva gli indumenti. Sia perché la fibra delicata produceva una stoffa raffinata e unica, sia perché era raro procurarsela.
Non appaia inopportuna questa notazione ma sembra che il panno con cui la Veronica asciugò il volto al Cristo, custodito a Manoppello in Abruzzo, nel santuario, sia proprio di bisso. Non di lino, né di seta, ma di puro bisso.

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Non ho notizie che a Ponza sia stato mai tessuto il bisso, né ho visto mai nelle case ponzesi stoffe guarnite di bisso (ma a Sant’Antioco in Sardegna c’è una signora che ancora tesse il bisso, con l’aiuto dei familiari che le procurano la pinna nobilis). Pur tuttavia ho affrontato questo argomento perché sono convinto che nella nostra isola siamo circondati da un universo di conoscenze, di esperienze, di bellezze… e passiamo con disinvoltura fra tanta ricchezza senza che parte di essa impreziosisca le nostre esistenze.
Il rimbrotto è rivolto ai miei concittadini perché non facciamo tesoro della nostra eredità culturale, accontentandoci di presentarci come custodi distratti di bellezze naturali venute a noi in sorte.
E’ un monito rivolto ai Ponzesi, affinché dal passato si traggano motivi per rendere più ricca la nostra vita di isolani, e più autentica.
Quelle pale madreperlate abbellivano e abbelliscono le case di noi ponzesi. Alcune veramente tanto grandi che, al paragone con quelle che si incontrano oggi a mare, viene naturale domandare: ma dove sono state prese?
La risposta ricorrente è: a Palmarola.
E si spiega. Le acque di Palmarola sono sempre state setacciate dai pescatori.
Sia con l’ingegno, allorquando i “torresi”, radicandosi nella colonia di Le Forna (1773), trasferirono nelle isole ponziane la capacità di pescare il corallo. L’ ingegno infatti è l’attrezzo con il quale venivano raschiati gli scogli sul fondale, e si riempivano le reti di coralli.
Sia con le nasse, allorquando furono le aragoste ad essere ambite dai mercati , prima nazionali e poi europei (agli inizi del Novecento). Sia con le reti, data la pescosità generosa delle acque dell’ isola.

Ma lo scempio delle lanaperle è cominciato con la pesca in apnea. Il che è accaduto relativamente tardi, quando cioè il mare è entrato nelle confidenze della massa delle persone. Le vacanze al mare, l’estate come periodo riservato alle ferie, sono stati questi i fenomeni sociali che hanno permesso a tutti di godere del mare e delle sue attrattive. Il che ha determinato che le coste di Palmarola e i suoi ricchi fondali fossero meta dei vacanzieri, animosi e disattenti. Le lanaperle sono state, e tuttora sono, oggetto di una maleducata aggressione. Dagli anni ’60 in poi.

Il frutto, commestibile, veniva mangiato dai pescatori. Ai quali, detto per inciso, spetta il merito di aver ideato e tramandato i piatti veraci della cucina isolana. Alludo alla scapece, ai rotondi, al fellone, ai cuolle ‘i raoste, alle polpette di pesce.
Piatti nati dalla necessità di valorizzare il cibo che procurava il lavoro, di fermarne la decomposizione, di utilizzarlo anche a distanza dal giorno di pesca. Perché ‘a scapece altro non è che un espediente per utilizzare il pescato almeno per una settimana, fermandone lo stato con l’aceto.

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La coccia ‘i fellone viene dietro alla necessità di far tesoro di quel poco che si riusciva a ricavare dal carapace della grancevola. La consistenza del piatto è data dal pane (anche raffermo), e il gusto da quel sughetto striminzito tratto dai pezzetti di organi interni.

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Il bell’esemplare di “fellone” fotografato
da Adriano Madonna nei pressi dello “Scoglio Grosso” a Ponza