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La riserva indiana

di Sandro Russo
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La similitudine è lampante ed è – purtroppo – tutta contro di noi.
Che possibilità hanno avuto gli indiani d’America, nell’800 e nel ’900, contro l’invasione di una cultura “diversa” dalla loro che li ha prima aggrediti in armi, poi attratti con lusinghe varie in spire inestricabili e infine assorbiti?

Le analogie ci sono tutte.
Dal capo dei lunghi coltelli “che parla con lingua biforcuta”, alle giovani teste calde della tribù residente che vogliono sotterrare l’ascia di guerra e lanciarsi coltelli in pugno contro le “canne fumanti” dell’invasore; ci sono gli analoghi delle coperte contaminate di vaiolo e l’acquavite che contribuirono ciascuna con i suoi modi e tempi a fiaccare la resistenza di quel popolo fiero. C’è stata infine, quando il genocidio culturale si era compiuto, la proposta di elargire scampoli di territorio invece delle sterminate praterie dove mugghiava il bisonte, per finire a vendere collanine ai turisti.

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Pur condividendo l’idea di Vincenzo sulla tutela della residenza invernale e anche i punti del suo ultimo articolo (leggi qui [3]) – in cui spiega come e qualmente tutta una serie di funzioni vitali per l’isola sono possibili solo grazie alla presenza e attività dei residenti – temo che queste misure siano largamente palliative, su una linea di tendenza che ha preso la stessa (inarrestabile?) china che ha portato gli indiani nelle riserve.

I giovani hanno presente che questo è il pericolo? Che il loro “fàmolo strano” è contro questo pericolo ben reale, questa minaccia incombente, che si deve confrontare?

Non vorrei essere troppo pessimista; forse ci rimangono ancora lunghi anni di transizione – a volte una variabile non considerata può alterare tutto l’andamento -; pongo soltanto un allarme “per analogia” con questo esempio e altri che la storia ci propone.

Il più delle volte la fine viene comunque, ma proviamo a gestirla in proprio… Possiamo farlo con stile!

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