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Monte Aprea

di Francesco De Luca
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“Monte Aprea? Dove si trova la montagnella chiamata Aprea?”
Lo chiede una ragazza, zaino sulle spalle. A me, che ho lasciato la macchina nel grande parcheggio adiacente al ristorante Angelino.

Cade male perché non lo so. Mi guardo intorno col desiderio di farmelo suggerire da un compaesano e togliermi dall’imbarazzo.

“ Questo è il monte – mi viene in soccorso un amico -, è proprio questo, e viene attraversato da questa strada chiamata Benedetto Aprea. Si inerpica fra gruppi di case, orti, e ascende fino a raggiungere quelle macchie lassù. Qui tutta la zona porta l’impronta della famiglia Aprea. Quella casa era di mio nonno, l’altra di mio zio…”.

“E questo stemma ? Cosa significa quella A? – lo interrompo.
“Quello è lo stemma degli APREA… me lo hanno portato dall’ America…”

“C’è un bel panorama…” – intervengo – anzi a scorgere bene è davvero unico. A sinistra nell’incavo di Cala Cecata in lontananza si fa notare la sagoma di Palmarola, e a destra, nell’incavo fra la collinetta dei Sacco e Piana Incenso, il promontorio del Circeo.

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Le foto delle “montagne” Aprea e Sacco sono di Sandro Vitiello

Le stradine si intrecciano, toccando tanti usci. Guardo e non posso non immaginare la difficoltà di percorrerle da parte dei nostri vecchi. Le gambe anchilosate dalle articolazioni inceppate e dolorose.

“Come mia nonna – dice l’uomo –, una donna forte, volitiva e caparbia. Rimasta vedova si unì alla mia famiglia. Mia madre ne era la nuora. E quando anche mio padre morì lei prese in mano la conduzione. Lei non mia madre. Decise così che dovessi studiare. Un investimento a vuoto, secondo i canoni di allora, siamo nell’immediato dopoguerra. Perché? Perché allora le braccia degli uomini servivano per trarre dalla terra e dal mare il sostentamento. Con me l’attesa del ricavo era proiettata molto, molto lontano. Lei però poteva contare su quell’aggeggio lì” – e mi indica una macchinetta da cucire. A mano.

“Una Singer?” – dico io – “No, è una macchinetta tedesca. E mia nonna faceva la sarta. Da Calacaparra, dalla Piana, dalla Chiesa, veniva la gente da mia nonna, per i vestiti.
Io ho studiato per quella macchinetta lì!”

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Spaccapurpo e Arco Naturale (d’infilata) con panorama del porto, dal ciglio Aprea

L’ingegnere Aniello Aprea si raggela in una espressione che sa di forte emozione. Poi prosegue.

Ha gettato però un dado nell’acqua della memoria e nei centri concentrici mi ci ritrovo anch’io, fanciullo, quando si lasciò l’isola per affrontare nell’ambiente collegiale competitivo la sfida di dimostrare il proprio starci.

Se solo puntassimo su questa esperienza comune, quanti di noi, oggi, con idee e convincimenti diversi, ci troveremmo uniti, con un solo intendimento: dare forza alla nostra identità.

“Mia nonna era una Balzano… veniva dalla Montagnella… donna di pochi e ferrei principi. Mi mandò a studiare presso i Salesiani ove presi coscienza che la vita va affrontata con le armi del rigore e dell’impegno”.

Adesso l’impegno lo esplica nel tenere in ordine i giardini circostanti, i filari di vite, la socialità diffusa con la sua gente.

Mi offre una bottiglia di vino. “Ma dove ce l’hai la campagna … per fare tutto questo vino…?” – chiedo.
“No… compro l’uva e la vinifico” – risponde. Così mi quieta. E sì… perché se no avrei pensato a chi sa quale macchinoso espediente.

“Lo assaggerò” – dico – e lo saluto. Gli amici davanti al bar Angelino lo aspettano. Dovranno formarsi le coppie e darsele di santa ragione brandendo le carte da gioco.

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Panorama delle Forna, Calacaparra, con il campo di calcio. Secondo quanto riportato nel testo, a dx della foto “la montagna dei Sacco”; a sinistra, “la montagna degli Aprea”

 

Immagine di copertina. Vista di Ponza e Palmarola dal ‘Ciglio Aprea’. Foto di Ivan Aprea (in arte ‘Petaloso’)