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I dialetti sono come un albero genealogico (2). Continua la pubblicazione della prolusione tenuta da Mario Rizzi alla “Quarta giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali” organizzata dall’UNPLI – Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia – (leggi qui) Per l’articolo precedente, leggi qui Il dialetto ricevette fondamento scientifico da Bernardino Biondelli nel 1856, non già come vaga ipotesi di una mescolanza di lingue diverse, ma come reazione dovuta alle differenti abitudini fonetiche dei popoli latinizzati. Ma il mero studio del dialetto lo si deve ai linguisti Scipione Maffei, Carlo Cattaneo e Graziaddio Isaia Ascoli intorno al 1870, fino ad arrivare ai primi decenni del 1900 del palermitano Giuseppe Pitré. La prima suddivisione scientifica, come abbiamo scritto, dei dialetti italiani venne tracciata dal fondatore stesso della dialettologia italiana, Graziadio Isaia Ascoli. La classificazione adottata dall’Ascoli è rimasta valida fino ad oggi, anche se al metodo diacronico e ramificatorio si preferisce ora sostituire un criterio storico in senso stretto e ondulare. I dialetti italiani si dividono in sei grandi gruppi, così suddivisi: …omissis [Nota della Redazione – La suddivisione dei dialetti è stata omessa per necessità di sintesi. I cultori potranno trovarla nel file .pdf completo del lavoro, pubblicato in calce alla terza e ultima puntata]. Il vernacolo minturnese Moltissime parole traettési sono state estrapolate da documenti e testi antichi: [Omissis… la bibliografia è riportata nel .pdf completo, vedi sopra]. Il mio libro permette al lettore una completa rivisitazione del dialetto minturnese. Il rapporto fra questo testo e Minturno non interviene per interposta persona ma in presa diretta: da una parte c’era il popolo che raccontava la sua storia millenaria cominciata con proverbi, motti, modi di dire su cui le persone di Traétto hanno fondato la loro saggezza, come una sorta di punto di riferimento per le scelte comportamentali di fronte alle prove della storia; dall’altra c’ero io che ascoltavo, e che annotavo con l’interesse affettuoso con cui i ragazzi di un tempo, nei nostri paesi sulle soglie di pietra o sulle scalee delle chiese, in certe sere d’estate, o d’inverno intorno al camino, ascoltavano favoleggiare i nonni, gli antichi contadini, i vecchi pescatori, i falegnami, i calzolai, i sarti, i fabbri e così via. Il mio testo è, innanzitutto, un attestato d’amore alla parlata minturnese. Il vernacolo di Minturno è assai bello ed ha, insieme, pregi di forza e di soavità. Ma belli sono un po’ tutti i dialetti, e certamente più suggestivi della lingua nazionale, per vivacità e vitalità d’espressione e per naturale attitudine a realizzare l’evento creativo. Il nostro vernacolo si è oggi modificato per effetto di eventi sociali, come l’emigrazione e più ancora l’immigrazione. Ecco perché il dialetto che si parla in molte famiglie della città minturnese non è più quello genuino di un tempo: quello, cioè, del centro storico traettése. Il dialetto minturnese ha un che di selvatico e di fragrante: non è un vernacolo edulcorato e raggentilito, come quello di Cristoforo Sparagna nei libri di poesie Canti di Minturno e Sull’altra riva. Sparagna interveniva sul dialetto smussandolo, addolcendolo e cercando di avvicinarlo, il più possibile, alla lingua napoletana e a quella italiana, e così finiva col cacciarlo nella pericolosa categoria del “grazioso”. Alcuni fra i 1500 proverbi, motti e modi di dire, che fra poco ascolterete, sono invece scritti nel dialetto non ancora inquinato o manipolato. Mario Rizzi
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