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L’amore ai tempi della scrittura (2). Per la madre

di Silveria Aroma
me&mum [1]

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La memoria di Silveria per sentimenti che una volta trovavano espressione “per lettera” si arricchisce di questo secondo articolo
– la Redazione

Per l’articolo precedente, leggi qui [2]

Nel mio personale panorama di epistole amorose prese in prestito dalla letteratura, mai e poi mai sarebbe potuta mancare una lettera alla madre.

Figura essenziale nella vita di ciascuno di noi, divenuta ancor più velata di mistica per chi, come me, se l’è vista sottrarre prematuramente.
Qualcosa – una sorta di speciale empatia – da allora mi lega con forza a chi ha conosciuto lo stesso acerbo dolore. Il mio personale resta fissato in una indelebile notte di febbraio.

Ho scelto un poeta siciliano Salvatore Quasimodo, legato – per amor di poesia e non solo – alla cara Alda Merini.
La madre del poeta aveva nome Clotilde; la mia Anna.
Tempo fa, studiando un po’ la lingua turca, ho scoperto che la parola usata per indicare la mamma/madre è anne.

La lettera alla madre rappresenta la nona lirica della raccolta La vita non è un sogno, composta tra il ‘46 ed il ‘48 e pubblicata nel 1949.
L’intera opera è pervasa da una poetica corale, piena di speranza e di dolore, per un’Italia uscita devastata dalla II guerra mondiale.

Nello scrivere alla madre malata, Quasimodo, la ringrazia per l’insegnamento di quell’ironia indispensabile per affrontare al meglio le brutture della vita.

quasimodo

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Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo. – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo.
Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.