Attualità

Ma dove sta andando il mondo, da Trump alla May, dalla Le Pen ai ricchi di Davos?

di Vincenzo (Enzo) Di Fazio

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Proviene dall’America, con l’esaltazione dell’isolazionismo e del protezionismo, un’ulteriore grossa spallata a ciò che gli uomini di pace hanno fatto di buono nei secoli coltivando l’idea ambiziosa di vedere i popoli uniti e non in lotta gli uni contro gli altri. Perseguendo questo sogno uomini come Abramo Lincoln e Martin Luther King in America, Nelson Mandela in Africa, Gandhi in India, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi in Europa e tanti altri si sono battuti contro la povertà e le ingiustizie per l’affermazione e la parità dei diritti, per la tutela della libertà e la dignità dell’uomo, per il riscatto delle donne.

La settimana appena trascorsa si contraddistingue per aver decretato l’inizio di una nuova era di nazionalismo.
Qualche giorno prima dell’ Inauguration Day Donal Trump in due interviste al Sunday Times inglese e alla Bild tedesca non si è fatto scrupoli nel manifestare il suo pensiero di rara portata distruttiva nei confronti dell’Europa. Ha inneggiato al Brexit, offrendo a Theresa May un rapporto privilegiato e augurandosi che altri stati europei possano seguire l’esempio della Gran Bretagna.
Non era mai accaduto, dai tempi di John Kennedy, che l’amministrazione americana non si dichiarasse favorevole al progetto europeo.
E l’atteggiamento di Trump è un eccezionale regalo a Putin cui non può non far piacere un’Europa disintegrata preda sicuramente più facile per ripristinare posizioni egemoniche.

Trump e Theresa May

Theresa May, da par suo, pur non appartenendo ad un partito nazionalista (ma forse preoccupata di guadagnare consenso popolare) ha raccolto l’assist e di fronte al parlamento britannico, qualche giorno fa, nel delineare i termini per l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa ha dichiarato in maniera quasi sprezzante, che non sarà mantenuto un solo pezzo di Ue e ha aggiunto che, in caso di ostacoli, sarà guerra fiscale con abbassamento delle tasse per rendere la Gran Bretagna un paradiso fiscale “off shore” alle porte dell’Europa.
Un ricatto non degno di una nazione che si vanta d’essere la culla della democrazia; una posizione che spinge indietro di anni la politica degli sforzi fatti (e che stanno proseguendo) in seno all’OCSE, al G20  e alla stessa Europa per la lotta contro la frode e l’evasione fiscale internazionale.

La posizione dei leader di questi due paesi di potenza indiscussa ha ringalluzzito tutti i leader della destra più estrema europea, dalla francese Marine Le Pen, all’olandese Geert Wilders al nostro Matteo Salvini al punto di spingerli a darsi un appuntamento internazionale a Coblenza in Germania per propagandare l’uscita dall’Europa, l’indipendentismo ed il culto della patria, la propria patria riecheggiando l’America first del nuovo presidente americano.

I populisti a Coblenza

Questa destra odia tutto, è contro l’Europa intesa come aggregato di pace, cultura e mediazione politica.
Fa leva sulla decadenza del ceto medio, sull’insoddisfazione dei giovani, su chi è uscito indebolito dalla globalizzazione e sul problema dell’immigrazione proponendosi come portavoce del conseguente malcontento.

Scrive stamattina su Repubblica Timothy Garton Ash (saggista e professore ad Oxford): “Le ere improntate al nazionalismo non sono una novità ma, proprio perchè le abbiamo già vissute, sappiamo che spesso iniziano piene di belle speranze per finire poi in tragedia. Per ora i nazionalisti si approvano a vicenda con gesto trumpiano, alzando il pollice, da una sponda all’altra dell’oceano …”

Donald Trump

In questa apparente comunità di intenti c’è poco spazio per la condivisione proprio perchè prioritario è il culto della nazione, della patria e, alla lunga, l’urto delle singole “patrie” diventa inevitabile.

Nel ruvido discorso di insediamento di Trump, 45° presidente del paese più potente della terra, non c’è una sola parola indirizzata al mondo, agli altri, alla pace tra i popoli.
Anzi Trump sottolinea quale sarà il nuovo ruolo dell’America:
“E’ ora di finirla con un’America che va a difendere le frontiere di altre nazioni e poi non difende il proprio confine”.
Un manifesto populista che ha come punto di forza il ritorno all’identità e alla priorità nazionale, valore unificante e criterio guida di tutte le scelte.
Tutto è sintetizzato nel messaggio pratico: “Compriamo americano, assumiamo americano”.

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Me le strade per le politiche nazionaliste e protezioniste non sono in discesa.
In America come in Gran Bretagna.

Trump, nel promettere investimenti e generose riduzioni di tasse, dovrà fare i conti con il debito pubblico e con la politica monetaria della Fed; quando dice di voler tassare le importazioni (quelle cinesi, ad esempio, del 45%) deve preoccuparsi – soprattutto in un periodo di politica di bilancio espansiva – di non irritare i suoi maggiori creditori, Cina e Giappone in testa, in quanto detentori di vaste quote del debito pubblico americano.
…e poi ci sono le proteste dell’America che non l’ha votato. Come quella che oggi ha visto tante donne, bianche, afroamericane, latine manifestare in difesa dei propri diritti a Washington e in altre 673 città sparse per il mondo.

Le marce delle donne negli Stai Uniti e nel mondo.

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Theresa May che si è esaltata sognando una Gran Bretagna globale deve fare i conti con la Scozia e l’Irlanda del Nord che, con indiscussa posizione europeista, hanno minacciato la secessione se escono dal mercato comune.

Insomma un futuro pieno di nuvole ed incertezze e se allunghiamo lo sguardo scorgiamo altri problemi.
Le disuguaglianze tra le genti della terra, altro terreno fertile per i nazionalismi, sono in aumento.

Così otto super ‘Paperoni’ (gli uomini d’affari più ricchi del pianeta) hanno la stessa ricchezza di una metà dell’umanità, pari a 3,6 miliardi di persone (nel 2014 i super ricchi erano 85).

Osserva l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz che a Davos, dove annualmente si incontrano gli uomini più ricchi del pianeta per fare il punto della situazione, i leader del mondo economico e imprenditoriale hanno classificato la disuguaglianza tra i maggiori rischi per l’economia globale, riconoscendo che si tratta di questione economica oltre che morale…
Se la maggioranza dei cittadini sente di non beneficiare della crescita o di essere penalizzata dalla globalizzazione finirà con il ribellarsi al sistema economico nel quale vive. Brexit e Trump lo dimostrano.

E’ deprimente leggere che i ricconi analizzano il problema dal punto di vista economico più che da quello morale… ma tant’è.

Riferisce ancora Stiglitz che alcune idee per evitare che la piaga della disuguaglianza metta in pericolo la sostenibilità economica, politica e sociale del sistema democratico di mercato sono venute fuori.
Una è che tutti paghino la loro giusta quota di tasse smettendo di fare ricorso a giurisdizioni a fiscalità agevolata rinunciando a paradisi fiscali societari, siano essi in casa o off-shore, a Panama o alle Cayman nell’emisfero occidentale, oppure in Irlanda e in Lussemburgo in Europa…

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L’Africa da sola perde 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati dai suoi super ricchi: a questo proposito l’Oxfam (la Confederazione Internazionale specializzata in aiuti umanitari e progetti di sviluppo) ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita di 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi di quel continente.
Un’ altra idea  è che i lavoratori siano remunerati in maniera dignitosa. E’ scandaloso che, ad esempio, i top manager delle grandi aziende americane portino a casa uno stipendio pari a 300 volte quello di un loro dipendente.
Infine c’è una terza idea che è quella di investire nel futuro delle aziende, in tecnologie e nei suoi dipendenti.

E queste cose non si cambiano con le promesse diffuse, le chiacchiere e le difese nazionalistiche.  E’ necessaria la riscrittura delle regole politiche, economiche, sociali nella consapevolezza che l’unica prosperità sostenibile è la prosperità condivisa.

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