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Ritorno all’isola e poesia

di Domenico Imperatore
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Sull’isola lunata sono ritornato esattamente l’8 ottobre del 1983. Era un sabato, lo ricordo perfettamente perché quel giorno compivo gli anni.
Prendemmo l’aliscafo a Formia, al mattino, in maniera da trascorrere un giorno sull’isola e poter far ritorno a casa nella stessa giornata.
Quella volta, insieme a me c’erano mia moglie, il primo figlioletto, la secondogenita di pochi mesi e mio padre.

Era stato difficile convincere quest’ultimo a effettuare quell’escursione, ma il suo amore verso i nipotini lo avevano addomesticato e si era lasciato, sia pur riottosamente, letteralmente traghettare verso Ponza.

Quando siamo arrivati nel porto, ho colto nel suo sguardo un accenno di meraviglia. Poi siamo scesi e, non avendo bagagli, ci siamo immediatamente diretti verso il centro della cittadina.

L’abbiamo attraversata e io ho avuto ancora la possibilità di impregnarmi di odori che ancora oggi i neuroni del mio cervello mi rimandano intatti. Le luci, gli angoli, le discese e le traiettorie erano meravigliosamente quelle che ricordavo e che, con grande piacere, vedevo avere un effetto di incredula sorpresa anche su un terricolo assoluto quale era il mio genitore.

Ancor più si è accresciuta la mia sensazione sul suo stupore quando, dopo aver attraversato la millenaria galleria romana, siamo giunti nello splendido e ineguagliabile panorama di “Chiaia di Luna”. Di quel momento conserviamo una bella foto di lui con in braccio la bambina. Un’immagine molto tenera.

Era ormai l’ora del pranzo e, sul porto, ci fermammo da “Gennarino a mare”, scelta premiata dall’apprezzamento di tutti noi commensali.

Anche quella giornata sull’isola fu ispirazione di un mio componimento, frutto di pura fantasia, mista tuttavia al desiderio intimo di un vissuto in quel luogo per me assolutamente prodigioso. Lo propongo nella speranza che, in qualche modo, dia un senso di quel che per me rappresenta Ponza: un luogo dell’anima.

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Il pescatore

Sciama in silenzio la folla.
Ti rivedo agile e guascone;
erano serenate cullate dalla brezza
fra effluvi di zagare e ginestre.
Ripenso a capelli di ebano,
a occhi di fuoco.

Ricordo baci improvvisi a smorzare parole.
Poi il rientro frettoloso di Maria
e tu, giacca in spalla, fischiettando
ti avviavi verso l’osteria.

Una sera scopristi il mio nascondiglio;
mi portasti a bere un bicchiere di vino.
La barca più bella era la tua
e mi raccontasti di sirene che non vedevi,
tu che del mare ti fidavi
perché ti era stato padre e madre.
Lo amavi come il bambino ama le spine
che feriscono in difesa delle more.

Ti ho aspettato per due giorni
spostandomi di continuo fra gli scogli.
Ora vedo lacrime fluenti
spegnere il fuoco degli occhi,
uno scialle di nero colore
sopra capelli che immagino d’ebano
mentre il mare che ti ha voluto con sé
canta la sua nenia di onde alla spiaggia.