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Le navi e i porti

di Pasquale Scarpati
odissea1 [1]

 

Pasquale risponde “alla sua maniera” ad un commento di Silverio Guarino
– La Redazione

 

Da “Commenti” a “Traversate e altri viaggi. (6) [2]”, di Silverio Guarino

“Caro Pasquale,
mi sono ripromesso di rileggere con calma i tuoi racconti durante le vacanze di Natale, perché meritano più tempo per assaporarli di più.
Nel ringraziarti per avermi anche citato per l’“amato scoglio”, una sola domanda: perché la dedica a Isidoro Scotti nella veste di “dirigente medico c/o ASL Latina”?
Mistero?”

Caro Silverio
Un porto proteggeva, sicuro, molte navi, più o meno grandi. Quando soffiava il vento, infatti, esse ondeggiavano un pochino. Con il passare degli anni, le navi divennero talmente numerose che, allorché i marosi salivano dietro la scogliera, si toccavano le une con le altre. Anzi, nonostante avessero parabordi fatti con vecchi e grossi copertoni di camion, rischiavano di colare a picco perché le paratie non riuscivano a sopportare i violenti urti.

Molte di esse, quindi, decisero di levare le ancore e, guidate dal firmamento che brilla nel nero cielo e dal canto delle sirene che proveniva da luoghi lontani, si diressero verso l’ignoto. Giunte in quelle località dovettero buttare l’ancora in rada al fine di conoscere le correnti ed i venti del posto. Sulla catena era scritta la provenienza, ma questa era per la maggior parte immersa nell’acqua mentre solo una piccola parte era affiorante. Molte di queste, temendo quelle correnti e quei venti o per altre ragioni, non vollero attraccare e tornarono indietro. Trovarono, però, il porto da cui erano partite già intasato da altri natanti per cui si diressero altrove, forse peregrinando di qua e di là. Altre, dopo che aver capito e soprattutto accettato tutti i venti e le correnti di quelle località decisero di attraccare stabilmente al molo. Molte di loro, per vari motivi, rimasero lì, ferme, fino a che non il mare non le consunse. Altre invece staccarono gli ormeggi per ritornare stabilmente o saltuariamente là da dove erano partite. Sta di fatto che anche a loro capitò ciò che era avvenuto a quelle che in precedenza si erano dirette colà. Qualcuna, invece, ostinatamente si mise in rada con la speranza che si liberasse un posticino. Dopo tanto tempo, finalmente, accadde ciò che aveva sognato.

Entrò nel porto e, non senza emozione, buttò la prima ancora, poi la seconda. Ma, come ben sai, ciò non basta per tener ferma la nave, anzi l’ancora non solo non la tiene ferma ma, se ci pensi, è anche la parte della nave che è rivolta verso il largo. Per girare su se stessa, così come avveniva con le navi di una volta, fece perno sulle ancore. Poi, lentissimamente, arretrò fino a pochi metri dalla banchina. Qui fece volare i due sacchetti a cui sono legate due corde sottili che, però, dall’altro capo tengono due grosse cime. Queste si avvinghiarono alle due bitte e tennero ferma la nave. Una sola cima, dunque, non basta: ce ne vogliono due. Esse sono formate da moltissimi fili intrecciati. Come la corrente elettrica corre nei fili di rame, così in una di queste cime corrono i ricordi. Nell’altra corrono le persone. Molte di loro se ne sono andate lasciando ad altri la propria esperienza da cui, poi, ne consegue un’altra; con altre, pur facendo parte del passato, si può ancora dialogare e soprattutto confrontarsi; ed infine vi sono quelle con cui si discorre quasi quotidianamente. Tutto ciò fa parte della nave o per meglio dire fa sì che questa abbia conforto stando sicura nel porto.

Tu mi chiedi perché io dedichi i miei scritti a qualcuno. Non parlo di quelli che condividono con me le mie stesse origini in cui sta insito il mio affetto, né di quelli che hanno condiviso i trastulli e poi le speranze, le illusioni e le certezze, ma mi piace parlare con quelli che rappresentano il mio passato e con quelli che rappresentano il presente con cui condivido almeno le speranze.