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Traversate e altri viaggi (6)

di Pasquale Scarpati

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con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina
per la quinta parte (leggi qui [2])

Mi lamentavo, ovviamente, del disagio, sbuffavo, ma, forse perché avvezzo a tanti disagi, cercavo nello stesso tempo, sempre e comunque, una mia soluzione, anche morale, per quanto possibile, a quello che per me era un grosso problema, mai, però, senza venir meno ai miei doveri, specialmente se rapportato alla “vita più comoda” degli altri miei colleghi che avevano la ventura di lavorare in sedi più vicine e, a mio dire, meno disagiate. Trovai, così, negli anni successivi, il modo per risolvere, anche se parzialmente, questo problema.

Viaggi in treno
Non parlo dei viaggi che iniziavano alle quattro del mattino (tanto per non perdere l’abitudine) e si concludevano alle dieci e trenta con soste lunghissime del treno nelle stazioni perché aveva, in coda, anche il…
vagone postale. In alcune stazioni, pertanto, mentre si caricavano e scaricavano pacchi postali, la sosta si protraeva così lungamente che si poteva scendere e, nell’aria frizzantina del mattino, avviarsi verso il bar della stazione per sorbire un caffè o un cappuccino scambiando due chiacchiere con gli altri passeggeri se non con i controllori. Era un tempo in cui, a causa delle ristrettezze economiche, si cercava di “prendere due piccioni con una fava” e pertanto esso diveniva, oserei dire, flemmatico non tumultuoso. Un tempo in cui, a volte, più che la bocca parlavano gli occhi. Certe parole, infatti, erano sussurrate non gridate e le labbra si aprivano ad una risata schietta anche se rumorosa. Qualsiasi aneddoto o battuta salace era motivo di essere allegri. Non si rincorrevano né avvocati né magistrati cercando la soluzione che ognuno vorrebbe per sé e neppure si bandivano ai quattro venti le proprie emozioni quasi panacea dei propri affanni.

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I vagoni, detti anche “carrozze”, lo erano nel senso letterale del termine perché avevano ancora i sedili di legno (sicuramente erano le stesse che avevamo ascoltato il mesto canto degli Alpini e prima ancora dei soldati della brigata Sassari che da una terra circondata dal mare salivano sulle vette carsiche o dolomitiche!).

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Erano surriscaldate sia d’inverno che d’estate. Nel periodo invernale ciò accadeva perché i diffusori del calore, posti sotto uno dei sedili (di norma il primo appena si entrava), diffondevano aria calda senza controllo; d’estate il rozzo ferro (non molto dissimile da quello dai carri armati M47), borchiato, si arroventava così tanto che ci sembrava di stare come le ottime “pezzogne” messe in ordine su una graticola infuocata nella “curteglia” di nonna Tummetella, lassù ai Conti, sul far della sera durante l’estate, quando l’assordante frinire della cicale lasciava il posto al grillo che, inebriandosi della frescura proveniente dal mare, iniziava il suo monotono canto nel buio più assoluto o nel diffuso pallore lunare.
Allora rondini e pipistrelli, saettanti nel limpido cielo in cerca di cibo, inutilmente cercavano di attirare la mia attenzione. Gli occhi, infatti, erano tutti per quelle leccornie che a mano a mano, sotto la forza del fuoco, cangiavano colore.
Ogni tanto erano toccate da un ciuffo di prezzemolo o altro, intinto in una salsa di olio e limone. Allora il fuoco, che nel frattempo si era un pochino riposato, riprendeva vigore. Lingue rosse si alzavano per spalmarsi sulla carne del pesce, velocizzando la cottura e bruciacchiando le squame.
Così l’occhio del pesce cambiava colore, mentre la pelle diveniva sempre più bruna.
Subito nonna o zia Marietta e zia Sabettina oppure mamma si affrettavano a rigirarlo. Finalmente ancora fumante veniva riposto in un piatto piano, rotondo o ovale.
Nonostante scottasse non mi sottraevo dall’assaggiarlo prendendo la polpa tra il pollice e l’indice. Scuotevo, poi, la mano per raffreddare le dita e, nello stesso tempo, rincorrevo colei che, per lo più Eva o Giovanna, si affrettava a mettere in tavola la pietanza, cercando di afferrare un altro pezzetto.
A volte, però, invece di ottenere ciò che avrei voluto, ricevevo un ceffone o, nella migliore delle ipotesi, un secco diniego.

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L’assaggio era una mia prerogativa.
Sotto i coperchi nessun segreto; specialmente quando un profumino delizioso faceva venire l’acquolina in bocca. Niente cornetti né merendine; né panini, né nutella, ma tutto ciò che era cotto o stava ancora in pentola oppure si stava cucinando. Così al calamaro ’mbuttunàt’ che nuotava, ancora intero, nella salsa, prima di essere tagliato a fette, quasi sempre venivano a mancare le “alette”; al “fellone” una chela, mentre le polpette di carne o di pesce, appena fritte, diminuivano costantemente di numero con il passare del tempo prima di essere tuffate nella salsa. In questa poi non disdegnavo intingere una scorza di pane o la famosa ionta”(l’aggiunta che i negozianti tentavano di aggiungere al palatone o al paniell’ per completare il peso ma che spesso le massaie non gradivano perché preferivano risparmiare denaro: ’a jont’ n’a voglie – dicevano oppure, se inviavano qualcuno: Me raccumann’ nun te fa’ da’ ’a ionta!) mentre nel sugo apparivano qua e là cupolette rosse come lava incandescente. – Liévet’ ’a’llòch’ – ordinava mamma temendo che me ’nguacchiass’ o una qualche scottatura (questa costantemente compariva nel palato in forma di grossa bolla).
Lei, presto presto, metteva ’u mesàle (la tovaglia), prendeva un piattino, tagliava una fetta di pane e la cospargeva del rosso fiamma.
A qual punto me ne andavo protestando perché avevo perz’ ’u sfizio o forse non mi piacevano quelle situazioni da damerino.
Mi piacevano, in definitiva, quelle innocenti trasgressioni forse come antidoto alla rigida educazione degli adulti. Per velocizzare l’azione aborrivo le posate se non quando era necessario. Volentieri, invece, mi sedevo se una grossa fetta ‘i ‘nu panielle ‘i pane nir’ o ‘nu culurcio tagliato a metà, erano aspersi da fagioli fumanti o da ceci e a volte anche da lenticchia conditi con un po’ di sale ed un po’ d’olio fatto cadere, goccia a goccia, dalla bottiglia. Le lenticchie di nonna Tummetella erano molto saporite.

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Venivano scugnate (battute) sull’aia. Ma conservarle era un piccolo problema perché spesso erano attaccate dai pappece: l’insetto che, bucandole, diviene farfalla.
Nonna asseriva che avevano lo stesso sapore di quelle di Ventotene con la differenza che queste ultime non subivano l’attacco dell’insetto. Raramente usava ‘i chichierchie per condire il pane raffermo o per meglio dire piuttosto duro. Quando la situazione diventava insostenibile mi veniva in aiuto nonna Civitella che soleva dire: ‘A creatura adda assaggia’, sinnò ‘a notte nun dorme pecché riman’ scivelùt’ (voglioso). Non mi pronunciavo in merito ma gli altri fingevano di credere.

zuppa-ingleseMio fratello, invece, era molto goloso di dolci e in special modo della “zuppa inglese”: pastett’ (biscotti semplici, non al burro che, peraltro, o non esistevano ancora oppure erano troppo costosi) o savoiardi, bagnati di vermouth e spalmati di crema o crema al cioccolato. Mamma ne aveva preparata una per il giorno di ferragosto e l’aveva ben riposta al piano di sopra. Alla fine del pranzo mi disse: Pascali’ va ‘ncopp’ a piglia ‘a pizza (così erano dette le torte). Ubbidiente, presto presto, salii le scale e mi diressi là dove avrebbe dovuto esserci la torta: il vassoio era completamente vuoto.

Strillai: Ma’, ca’ nun ce sta niente!  Tutti ci rivolgemmo allora a mio fratello che beatamente se la rideva. Per fortuna che ci eravamo già “consolati” cu’ mellone frische appena tirato su dal vicino pozzo!

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Ogni casa aveva la sua specialità. Da nonna Civitella, in alto sulla curteglia, si potevano assaggiare le maruzze (che mia madre aborriva), catturate nelle umide sere precedenti  int’ u ciardìne al fioco lume di una piccola lanterna. Ma quelli che andavo a trovare in mezzo all’orto e nel tegame era gli scuri, bavosi e rumorosi maruzziéll’, perché più duri (callosi) rispetto alle altre lumache.
Inutilmente mamma mi raccomandava di non mangiarne troppo e soprattutto la parte posteriore perché, secondo lei, poteva far venire l’appendicite o addirittura ’u pandech’. Non solo le trangugiavo tutte dopo averle tirate fuori con uno spillo o un ago ma succhiavo rumorosamente perfino il sughetto che si era andato a posare nel guscio.
Nonostante mi cingessero ‘i nu mandisine, mi imbrattavo tutto: mani, mento e pantalone; con il pane cercavo di prendere quanto più sugo possibile ma così facendo colava tutto: ma proprio quello era lo sfizio.

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E che dire dei rufoli che quando si bollivano sapevano di “erba corallina”.
Una della tante patate bollite mi serviva per fare una “schiacciata”: la sbucciavo, la mettevo in un panno , la schiacciavo e la mangiavo condita soltanto con un po’ di sale. Se invece si friggevano i panzarotti, allora si creava una gara tra me e colei che con un utensile le faceva girare e rigirare nell’olio. Quella infatti, come oplita spartano, faceva scudo con il suo corpo alla sua creatura; io, invece, come soldato velis, velocemente attaccavo su tutti i lati fino a che non avevo raggiunto il mio scopo. Una sorta di cucù teté! come si usa per i più piccini.

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Da nonna Tummtella  il cibo era un po’ più… rustico, senza fronzoli. Sapori di campagna che andavano dalla cagliata al formaggio di pecora durissimo e salatissimo, ai fichi d’india ai gustosissimi gelsi rossi che erano raccolti sull’albero in costume da bagno, ai fichi secchi e alla gradevolissima mostarda, asciutta o, meglio ancora, morbida, quando era messa ad essiccare sul tetto a cupola.

Il cucchiaio amava tuffarsi tra i fagioli che borbottavano nella pignatta di creta spinti da una semplice brace oppure raschiavo il fondo del tegame dopo che pasta e fagioli era stata servita in tavola. Con le mani andavo a… pescare i rutunni arrecanati conservati in un vassoio o alla scapece posti in una zuppiera.
Il profumo di un pollo che aveva razzolato e la cui carne, quindi, era piuttosto soda o di un coniglio allevato, ovviamente, senza mangimi ma con l’erba scippata, mi stimolava nell’andare a cercare frattaglie e pezzettini di carne, anche se bruciacchiati, ancorati sul fondo della teglia. Pizzicavo con le mani. Il sugo aveva un altro sapore sia perché era cotto in un tegame di coccio dai grossi manici sia perché nonna non disdegnava usare nu poche ‘i nzogne, quella che si vendeva sfusa in grosse palle bianche chiamate appunto vessich’i ’nzogne e che stavano in bella vista appese in alto all’entrata dei negozi.

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E che dire, quindi, dei maccarune ‘i zite spezzati a mano e quindi non uniformi, belli rossi. Al Porto potevano essere conditi anche con il parmigiano grattugiato; ai Conti, invece, rigorosamente con il pecorino stagionato di cui ho detto. Anche quelli andavo a pizzicare con le mani, a uno ad uno, prima che fossero portati in tavola. Il cucchiaio mi serviva per racimolare in fondo alla zuppiera o al tegame i cosiddetti rimasugli: i pezzettini di pasta che si erano formati nel momento in cui era stata tagliata.

Come dolci,  ‘i turtanelle bagnate nel vino cotto e, quando era il suo tempo,  ‘u casatielle. Sapori di una volta che forse oggi il delicato palato potrebbe anche aborrire! E lo stomaco avrebbe sicuramente bisogno di un antiacido come coadiuvante!
A me non dispiacerebbe! …poi, però, verrei certamente a chiederti “consiglio” per come alleggerire il tutto: ma ne sarebbe valsa la pena!

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