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Traversate e altri viaggi (5)di Pasquale Scarpati . con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina
Detto questo mi sovviene quando, ancor giovane, insieme ad altri “sventurati”, sentivo sferragliare, alle 6 del mattino e per quasi tutta la settimana, il convoglio ferrato sotto i piedi. Il buio freddo di una stazione posta in aperta campagna ci accoglieva, infreddoliti e alquanto assonnati. Aspettavamo, pazienti, uno sgangherato autobus che sarebbe dovuto arrivare e portarci alla meta. Spesso, però, o non giungeva affatto, oppure ci “lasciava a piedi” a causa del ricorrente ritardo del treno. Avevamo due soluzioni: o avventurarci per un sentiero fangoso o polveroso che, attraversando la campagna, si immetteva sulla strada asfaltata ai piedi della collina e lì aspettare qualche “anima pia” che ci facesse salire sulla sua automobile, oppure seguire la strada asfaltata che dalla stazione portava ad un bivio ed attendere anche lì, pazientemente, gli “eventi”. Allungando lo sguardo nella buia campagna invernale mentre detti mezzi si inerpicavano su per una stradina stretta e tortuosa, notavo il livido sorgere dell’alba. Per consolarmi e per consolare i miei compagni di “sventura”, ironicamente dicevo: “Vedete quanto siamo fortunati: ci danno la possibilità di ammirare l’alba ed il tramonto (tornavo a casa che era già buio); di sapere in anticipo rispetto ad altri, come si presenta la giornata dal punto di vista meteorologico!” In realtà in cuor mio non potevo non pensare: “Beati quelli che possono lasciare le coltri un po’ più tardi: fanno una vita un po’ più da cristiani”. A mano a mano che le giornate si allungavano potevo godere il radioso sorgere del sole, laggiù verso il Massico, ad oriente, oppure il rosso tramonto verso il Circeo a occidente o, per meglio dire, il mio pensiero correva allo Scoglio di Mezzogiorno e all’arco il cui architrave aveva resistito all’assalto dei venti e alle tempeste per poi arrendersi sotto il loro instancabile e furioso assedio (chi, come me, ha avuto la facoltà di vederlo, ancora integro, può proferire con nostalgia ma anche con soddisfazione e fermezza la fatidica frase “Io c’ero”). Un giorno, tanti anni fa, una grossa patella tenacemente abbarbicata alla roccia, mentre faceva capolino tra l’onda del mare, mi raccontò questa incredibile storia: “Odisseo, peregrino per volere del fato ma soprattutto per sua volontà, giunse in quel posto. Entusiasta di tanta bellezza, della pescosità del mare e della vegetazione lussureggiante, volle innalzare ai numi un accenno di piccola fronte di tempietto greco. Lo costruì anche come voto affinché un vento favorevole facesse gonfiare la vela verso Itaca lontana, la cara Penelope, l’adorato figlio e l’amato padre.” Oggi, passando qualche volta da quelle parti non posso non esimermi dal narrare a chi mi accompagna o a ripensare alla sua bellezza. Nonostante il mio entusiasmo, la mia passione, la mia partecipazione, noto che sguardi fugaci e superficiali danno un’occhiata distratta verso quelle sagome informi che le onde marine dolcemente avvolgono. Ma quelle, poiché poggiano su solide basi, come le idee fondamentali, resisteranno a lungo nel tempo alla violenza dei venti e all’urto incessante dei marosi. E non dico di quanti accessi, reconditi e non, di cui l’Isola ci ha omaggiato (lo sa bene chi è un po’ avanti negli anni), di cui oggi non si può più fruire, cominciando dalle “Grotte Azzurre” nella loro interezza, passando per quella del “Core”. Una volta, infatti, il periplo dell’Isola non si limitava alla visione veloce e soprattutto fugace e lontana delle insenature e delle grotte, ma, con una barca anche a motore, purché non molto grande, si poteva, non dico ammirare ma letteralmente gustare, non per un’intera giornata ma per più giorni tutto ciò che l’Isola offriva in modo palese o in modo recondito. Una piccola barca era sospinta, infatti, da un piccolo e ronzante fuoribordo. Questo, come tutti i piccini, si dimostrava, molto spesso, capriccioso e dispettoso, restio a compiere il proprio dovere. Lui riposava sulla poppa, lasciandosi mollemente cullare dall’onda fino a che una corda avvinghiata a mano sul bulbo posto alla sua sommità e tirata violentemente non lo scuoteva. Ma quello, il più delle volte, era restio a svegliarsi forse perché quel dondolio era piacevole. Allora la corda arrotolata nuovamente, lo scuoteva con forza mentre si cercava di dosare la giusta miscela di aria e benzina. Non accadeva nulla. La lotta si faceva dura e spasmodica. Qualcuno, forse memore di come si comportavano gli adulti nei suoi confronti, affrontava il problema alla stessa maniera: dando colpi in testa. A volte ciò sortiva l’ effetto desiderato: il dormiglione si destava. Il più delle volte, però, dopo l’ennesimo sforzo, si spandeva nell’aria acre odore di benzina ed una macchia d’olio compariva nell’ acqua pulita. Era il famigerato e temuto “ingolfo” del motore. Il tal caso o bisognava aspettare oppure agire in profondità svitando per prima cosa la candela anche con i soliti mezzi di fortuna. Chi, infatti, non ha mai fatto un bagno nella vasca delle Grotte di Pilato o non si è intrufolato nei suoi cunicoli mentre la prua della barca placidamente stava arenata nell’ incavo della vasca stessa? Chi, dopo avere superato la strettoia dei Faraglioni della Madonna, dove l’onda ama perennemente giocare, non si è calato nella Parata o sugli scogli della Scarrupata o nel Bagno Vecchio dopo avere ammirato i Faraglioni del Calzone muto e dopo aver nuotato sotto il piccolo arco come se attraversasse un arco di trionfo. Oltrepassato il Faraglione della Guardia che sta lì come gigante sentinella e dal basso ti fa sentire piccolo piccolo, si apre il Fieno e d’improvviso, come accadeva una volta con il colonnato di piazza S. Pietro, prima che il quartiere venisse sventrato per fare posto a via della Conciliazione, si apre l’ampia falesia multicolore di Chiaia di Luna. Come gabbiano che ad ali tese scivola sul mare così non mi sono soffermato troppo tra sassi colorati o rozzi, tra sabbia e brecciolino, tra scogli e pareti, altrimenti… Oggi dove sono? Chi le assapora? Qualcuno l’ha paragonato al supplizio di Tantalo: allorché ci si avvicina, quelle bellezze si allontanano perché non più fruibili. Un altro le ha più semplicemente paragonate alle ombre cinesi. Altri dicono che è una malattia incurabile, una pelle cosparsa da tante piaghe che non si possono toccare neppure con i guanti. Così il tatto può carezzare solo e soltanto alcune zone (poche in verità), quelle ritenute sane, per le altre non resta che guardarle ma solo da lontano.
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